mercoledì 8 giugno 2022
Il celebre scatto del conflitto in Vietnam è diventato un’icona immortale della lotta contro ogni tipo di guerra. L'era digitale è capace di crearne una analoga per il presente?
Nick Ut, "Il terrore della guerra", 1972. All'opera del fotografo e alla storia della sua immagine più celebre è dedicata fino al 12 giugno la mostra Mostra "From Hell to Hollywood" presso lo spazio IsolaSET di Palazzo Lombardia, a Milano

Nick Ut, "Il terrore della guerra", 1972. All'opera del fotografo e alla storia della sua immagine più celebre è dedicata fino al 12 giugno la mostra Mostra "From Hell to Hollywood" presso lo spazio IsolaSET di Palazzo Lombardia, a Milano - ©The Associated Press /Nick Hut

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L’8 giugno 1972 Nick Ut, un fotografo poco più che ventenne del Sud Vietnam (Huynh Cong è il suo vero nome) che lavorava per l’Associated Press, scatta una foto che gli avrebbe fatto vincere lo stesso anno il Premio Pulitzer. L’immagine mostra un gruppo di bambini in fuga dopo un bombardamento al napalm su Trang Bang, un villaggio a circa 40 chilometri dalla capitale Saigon: i piccoli corrono disperati davanti a un gruppo di soldati sudvietnamiti incuranti di loro e del disastro che il loro esercito ha provocato, come si intuisce dalla nuvola di fumo scuro sullo sfondo della fotografia. Tra i bambini c’è Kim Phuc, nove anni, una ragazzina completamente nuda ustionata dal componente tossico dell’ordigno.

Oggi ricorrono i cinquant’anni da quello scatto, diventato non solo un emblema del conflitto vietnamita, ma un’icona immortale della lotta contro ogni tipo di guerra. L’anniversario offre lo spunto per una riflessione sul medium fotografico che, da quasi duecento anni, segna le nostre vite e i nostri immaginari. E che oggi, con l’avvento della fotografia digitale rischia di smarrire il suo valore di documentazione della realtà (come testimonianza del presente e memoria del passato) per diventare strumento di distorsione del reale (producendo serialità e indifferenza).

La digitalizzazione dell’esistente ha, infatti, destrutturato il senso tradizionale della fotografia statica, fagocitata prima dalla dinamicità visuale della televisione, e ora sempre più dalla possibilità estesa di produrre, condividere e intervenire sulle immagini. Succede grazie alle opportunità tecniche della Rete che permettono non solo di scattare e modificare una foto, ma anche (e soprattutto) di spalmarla (Henry Jenkins parla di spreadability ossia di spalmabilità di un contenuto digitale) sui diversi spazi che il web mette a disposizione. È il caso dei meme, veri e propri 'organismi' visivi che mutano e si evolvono non solo nella forma, ma soprattutto nel significato, determinando così modalità inedite sia di produzione e fruizione, sia di comprensione e interiorizzazione di un’immagine.

Da un po’ di tempo, durante le mie lezioni, quando parlo di media e guerra, faccio vedere a studentesse e studenti tre fotografie. La prima è la già citata "Napalm girl"; la seconda ritrae il rivoltoso che durante gli scontri di Piazza Tienanmen a Pechino nel 1989, si ferma davanti ai carri armati impedendone l’avanzata; la terza ha come protagonista la suora che, nel marzo dello scorso anno, supplica in ginocchio le forze di polizia di non sparare sui giovani manifestanti che protestavano pacificamente nel Nord del Myanmar. Poi chiedo loro di identificarne i protagonisti e la situazione storica. Ebbene, al di là dell’età e della provenienza geoculturale dei rispondenti, la prima foto è immediatamente individuata e spiegata così come la seconda (seppur con meno dettagli); la terza, invece, risulta ai più, difficile da contestualizzare.

Questo esperimento, pur non avendo alcuna pretesa scientifica, spiega come la memoria iconica, da patrimonio collettivo che segna un’appartenenza, si sta trasformando in tanti micro orizzonti che sono l’esclusivo riflesso delle esperienze personali. Se la fotografia analogica creava memorie di gruppo che condizionavano quelle individuali, oggi succede il contrario: sono le immagini personali a generare i quadri sociali anche se con meno persistenza e forza evocativa. Ecco perché, probabilmente 50 anni dopo, Kim Phuc non potrebbe rappresentare ciò che è, ma sarebbe soltanto un volto e un corpo da guardare, postare o memezzare. E dimenticare, perché poco tempo dopo un’altra fotografia con la stessa intensità drammatica, la sostituirebbe nei nostri ricordi e percezioni.

Questa evaporazione e inconsistenza del passato mediato, è uno specifico dei meccanismi online e rischia di diventare l’unica logica dei media: ridursi a una catena di montaggio di immagini prive di identità e di quell’intenzionalità comunicativa che è sempre stata all’origine di ogni istantanea analogica. Questo non vuole dire che la fotografia autentica non esista più e la pratica della creazione di immagini si sia ridotta a una pletora di miliardi di click senza particolare valore. Il cambiamento prodotto dal digitale non è distruttivo, ma come nel caso di ogni innovazione tecnologica - introduce varianti originali e dota la cultura visuale di una rinnovata vitalità. A patto che chi fotografa sia cosciente di ciò che fa e comprenda che non è la quantità a dare senso alla comunicazione di sé e della realtà circostante. Se l’intenzione non è consapevole e guidata da un progetto, resta solo l’atto e svanisce la bellezza meravigliosa in grado di trasformarsi in eternità.

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