domenica 11 febbraio 2018
La conduttrice ha lanciato la rivincita rosa. E ha ricordato il dramma della violenza sulle donne
Hunziker, Vanoni e le altre: sul palco di Sanremo hanno vinto le donne
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Sul palco dell’Ariston hanno vinto le donne. A partire da Michelle Hunziker e la sua «rivoluzione del ranuncolo» che ha portato a Sanremo il tema della violenza e quello della parità di genere. Dimostrando con maturata professionalità che un mega evento tv come il Festival, monopolio di bravi conduttori in smoking e papillon, può essere tranquillamente affidato alla conduzione di una donna, al di là dei soliti cliché della bionda e della mora. «Negli ultimi 20 anni il nostro ruolo è cresciuto, in tv oggi ci sono molte donne che conducono e che contano. Ma purtroppo questa nostra emancipazione non è il quadro del Paese», ha ribadito sabato Michelle. Come non è il quadro della musica italiana quello rappresentato da sole quattro artiste in gara su venti. Lo hanno dimostrato le belle performance delle superospiti che hanno riequilibrato il gap, dalla tosta Gianna Nannini e la procace Laura Pausini sino alla raffinatissima Giorgia, ben guidata dal maestro James Taylor.

Poche, ma toste, le artiste in gara hanno spezzato la logica delle quote rosa conquistandosi a colpi di voce e di classe i riflettori di un Festival che ha fatto della qualità della musica il fattore vincente. E se c’è una persona che la storia della musica l’ha fatta davvero è Ornella Vanoni, capofila di tutte le donne forti che non rinunciano alla loro femminilità. Una signora della musica che avrebbe meritato il ruolo di superospite e invece ha avuto l’umiltà di rimettersi in gioco, a 83 anni e per l’ottava volta, in un Festival che sinora non l’aveva mai premiata. Anzi, come ha rivelato Baglioni, abbiamo rischiato di perderla durante le selezioni se non fosse stato per un ripescaggio del direttore artistico. Ornella la rossa ha sempre avuto il fiuto per scegliere brani che le calzassero a pennello, passando con nonchalance da Strehler a Mino Reitano. E per questo Sanremo ha indossato con la leggerezza di una ragazzina l’abito da sera creato per lei da Bungaro e Pacifico, i Dolce e Gabbana della canzone italiana. «Ci sono voluti molti anni per essere giovani, diceva Picasso – dice la signora –. Se diventi vecchio ma se mantieni la freschezza mentale allora resti giovane. L’ho preso alla lettera».

A prenderla alla lettera, in una sorta di passaggio di testimone, quest’anno è stata Annalisa che finalmente ha spacchettato dal cellophane dei talent la sua voce cristallina, tagliando il cordone ombelicale con Maria (pur non rinnegando i talent) per lasciare uscire la sua autentica personalità. Trovando in Michele Bravi, nella serata dei duetti, il suo perfetto alter ego in un brano, Il mondo prima di te, contemporaneo per composizione e dal sound internazionale. «Questa è una canzone che segna la mia rinascita», spiega Annalisa regina dei social, idolo di tutte le ragazzine, comprese quelle del Piccolo Coro dell’Antoniano passate all’Ariston, che finalmente convince anche gli adulti. «Senza nulla togliere ai colleghi maschi, le donne in generale hanno una marcia in più, hanno la voglia di fare meglio» dice Annalisa Sciarrone da Savona, che dietro gli occhioni da cerbiatto nasconde una laurea in Fisica all’Università di Torino, esperienze nelle band indipendenti e una penna cantautorale in crescita che sfocerà nelle 13 tracce del nuovo album Bye Bye.

Non hanno portato all’Ariston le canzoni più azzeccate in questo festival le paladine del neofemminismo italiano, la rossa Noemi e la stilosa Nina Zilli, ma hanno mostrato personalità oltre i cliché. Soprattutto Noemi, che con quel timbro roco e potente è in grado di rendere affascinante anche l’elenco del telefono. Il suo nuovo album, Lunaè tutto dedicato all’universo femminile, complesso, lunare e talvolta lunatico come il brano scritto per lei da Tricarico. La pasionaria Zilli invece a cantato al Festival proprio i lividi sulla pelle e nell’anima Senza appartenere. Non sarà un capolavoro ma almeno ricorda che è «vietato morire», come cantava Ermal Meta l’anno scorso in un brano, quello sì, tutto suo.

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