giovedì 20 febbraio 2020
Un saggio di Daniele Castellari indaga il manifestarsi del sorriso umano e della pietà divina nei romanzi di grandi autori ebrei del Novecento, da Yehoshua a Grossman, da Roth a Singer a Elie Wiesel
Marc Chagall, “Sogno e magia”

Marc Chagall, “Sogno e magia”

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Umorismo e misericordia. Ma anche angoscia e rabbia. E tanto, tantissimo dolore. Sono alcune delle caratteristiche di gran parte della narrativa ebraica. Prendiamo il romanzo Il responsabile delle risorse umane di Abraham Yehoshua (Einaudi 2004), dove il protagonista deve svelare il mistero di un’ex dipendente dell’azienda, morta in un attentato terroristico a Gerusalemme e il cui corpo giace all’obitorio senza che nessuno l’abbia riconosciuto. D’accordo col proprietario dell’impresa, accusata da un giornale scandalistico di disumanità per aver dimenticato la donna, egli con un atto di magnanimità e fra mille peripezie conduce la salma di Julia nel Paese da cui era venuta, uno dei tanti dell’ex Urss. E qui scopre le origini ebraiche della vittima e, dopo averne incontrato i parenti, compie una scelta spiazzante: decide di riportare il corpo a Gerusalemme assecondando la richiesta della madre. Yehoshua mantiene un approccio laico alla vicenda e nel romanzo manca l’elemento della misericordia divina, ma c’è tanta compassione umana. Come non rassegnarsi all’orrore e far spazio all’accoglienza dell’altro, anche se non lo conosciamo?

A queste e a tante altre domande poste dalla letteratura ebraica cerca di rispondere un libro di Daniele Castellari, Non so se il riso o la pietà prevale, edito da Aliberti (pagine 190, euro 18; con prefazione di Moni Ovadia), che prende in esame sette romanzi del secolo scorso. Umorismo e misericordia nel romanzo ebraico del Novecento è il sottotitolo del volume: nel caso di Yehoshua giustamente si annota come, in una vicenda che assume spesso toni grotteschi, il senso di responsabilità verso l’altro emerga a poco a poco nella coscienza dei personaggi coinvolti. Così anche in altre due opere contemporanee, Vedi alla voce: amore di David Grossman (Einaudi 1999) e La scatola neradi Amos Oz (Feltrinelli 2002).

In Grossman sembra prevalere l’humour nero, precisamente nel patto fra lo scrittore ebreo autore di novelle per bambini, prigioniero nel lager, e l’aguzzino nazista che ne ha ucciso la moglie e la figlia. Scoperte le qualità del prigioniero, il comandante tedesco vuole sfruttarne le abilità e lo costringe a comporre nuovi racconti, che poi farà leggere alla compagna, che l’ha lasciato a causa delle sue efferatezze, nella speranza che ritorni. Ma cosa spinge Anshel Wasserman ad accettare quella che ci pare una scandalosa sfida? Egli medita una vendetta paradossale: indurre a poco a poco il carnefice dei suoi cari a credere nella compassione. Con la storia che scrive riesce a «iniettare la belva nazista di umanità», come commenta Castellari.

Allo stesso modo i tanti personaggi del romanzo epistolare di Oz, incentrato su una famiglia in cui il rancore dell’uno verso l’altro sembra avere la meglio, si ritrovano avvolti sempre più nella logica del perdono. Non è un caso che Amos Oz più volte nelle sue interviste abbia dichiarato che il vero antidoto al fanatismo è il senso dello humour. Nell’articolata introduzione, Castellari distingue l’umorismo dall’ironia e ricorda come secondo il teologo André Neher il riso costituisca una sorta di pietrificazione capace di rendere inoffensivo il silenzio di Dio, tema di cui molto si parla in queste pagine in riferimento alla Shoah. Che è sempre presente negli altri romanzi esaminati, scritti da Joseph Roth, Israel Joshua Singer, Vasilij Grossman e Elie Wiesel.

Di quest’ultimo l’autore ha preferito analizzare Il testamento di un poeta assassinato (Giuntina 1981) invece che altre opere più note del premio Nobel per la pace dell’86, come La notte. Nel volume il riso si manifesta nella figura del guardiano del poeta padre del protagonista, incarcerato dai nazisti e poi dai comunisti. È il suo diario del gulag che Viktor preserva e grazie al quale egli ritrova, quando Paltiel Kossover (alter ego di Peretz Markish, figura realmente esistita a cui Wiesel di ispira) viene messo a morte, la capacità di ridere come riappropriazione della propria umanità. Il poeta e il suo custode in tal modo riescono a beffare il crudele regime sovietico, permettendo al figlio Grisha di conoscere la vera storia del genitore.

A sua volta il romanzo di Singer La famiglia Karnowski (Adelphi 2013), che si snoda attraverso tre generazioni, ristabilisce un clima di pietà e perdono al termine di lunghe tribolazioni. Lo stesso accade nelle due opere più famose prese in considerazione, Giobbe di Roth (Bompiani 1987) e Vita e destinodi Grossman (Adelphi 2008). Mendel Singer, il primattore inventato dal più grande scrittore della Mitteleuropa, dopo immani sofferenze, esattamente come il personaggio biblico, recupera la pace e il senso di tutto il suo calvario. Singer voleva «bruciare Dio», fino al ritrovamento del figlio Menuchim di cui aveva perduto le tracce e che incontra per caso a New York senza riconoscere. L’aveva abbandonato perché gli pareva un idiota, ma è divenuto un musicista di talento e si è costruito una famiglia. «Mendel si addormentò. Si riposò così dal peso della felicità e della grandezza dei miracoli» sono le ultime parole del romanzo. Per non parlare di Vita e destino, una delle opere più importanti del ’900.

Nella messa a nudo delle efferatezze dei totalitarismi, pressoché gemelli come emerge mirabilmente nel dialogo fra il comandante delle Ss Liss e il suo prigioniero russo Mostovskoj, Grossman riesce ad enucleare una teologia della bontà. Condensata in una scena drammatica che si svolge dopo l’assedio di Stalingrado e la vittoria sovietica, allorché una donna russa offre un pezzo di pane a un ufficiale tedesco fatto prigioniero, mentre il nazista sta per essere linciato. Ma in vari altri episodi traspare «l’umanità semplice dei vecchi e dei bambini», «la bontà umile», come dice Castellari, una bontà che si esprime in gesti apparentemente illogici ma non è che il segno del «sollievo umoristico della misericordia ». Alcuni critici hanno notato che Kafka, a Praga, mentre leggeva agli amici La metamorfosi, rideva fino alle lacrime e indubbiamente rimane un mistero la presenza del comico all’interno del tragico. Proprio per questo Milan Kundera, nel saggio L’arte del romanzo (Adelphi 1993), cita un proverbio ebraico: «L’uomo pensa, Dio ride». Il sorriso e lo humour sono uno dei volti della misericordia, come ben precisa Moni Ovadia.

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