venerdì 5 giugno 2020
Gabriele Guerra ricostruisce il percorso intellettuale di una figura “acrobatica” tra avanguardia, teologia e politica, il cui cattolicesimo diventa strumento di dissidenza rispetto al proprio tempo
Hugo Ball sulla scena del Cabaret Voltaire nel 1916

Hugo Ball sulla scena del Cabaret Voltaire nel 1916

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L’immagine più celebre di Hugo Ball (1886–1927) lo vede sul palco del Cabaret Voltaire a Zurigo nel 1916 mentre vestito come un vescovo–totem, con piviale e mitria di cartone, mentre immobile salmodia ecclesiasticamente una poesia non-sense, simile a una formula magica. Soltanto la parodia dissacrante di una liturgia a opera di un artista cresciuto cattolico? Il 3 giugno di quell’unico anno di vita del palco che lui stesso aveva inventato, mette in scena un krippenspiel: un “presepe vivente”, composto quasi esclusivamente attraverso suoni e rumori, nella culla di Dada, il movimento di cui proprio Ball aveva coniato il nome. Un gesto folle mentre tutto attorno alla neutrale Svizzera rimbomba trigonometricamente l’artiglieria della Grande guerra?

C’è un moderno che sfugge alle categorie che del moderno abbiamo fissate perché a quelle categorie si oppone. È l’altra modernità di Hugo Ball. Nel suo polimorfismo (è stato scrittore, regista, filosofo, teologo, poeta, giornalista, agitatore culturale…) appare «come figura prismatica del proprio tempo tormentato, come architrave biografica di una costellazione di idee, figure e personaggi che caratterizzano il tempo tedesco tra anni Dieci e Venti del XX secolo: una figura particolarmente interessante di “eremita” dentro le correnti frenetiche della storia intellettuale tedesca di quegli anni: insomma un outsider dentro e fuori lo spirito del tempo». Così scrive Gabriele Guerra in L’acrobata d’avanguardia (Quodlibet), volume denso che getta uno sguardo complessivo sulla parabola balliana «alla luce di due elementi concettuali tra loro intrecciati: l’attitudine alla dissidenza e la sua prestazione specificamente teologico- politica». Un «paesaggio frastagliato », scrive l’autore, docente di letteratura tedesca alla Sapienza, in cui «arte, politica e religione» appaiono «sempre fittamente intrecciate» nelle diverse fasi dell’esistenza.

Guerra inquadra Ball all’interno del fenomeno del cattolicesimo politico tedesco, uscito dal kulturkampf (la “battaglia culturale” che aveva visto la realpolitik di Bismarck e la Prussia luterana cercare di ostracizzare l’elemento cattolico e “papista” nella Germania unificata) forse istituzionalmente riconosciuto con la nascita del Zentrumma comunque in cerca – come il resto del mondo cattolico europeo – di una propria identità e voce nell’alveo, problematico se non irriconoscibile, della modernità.

La via scelta da Ball vede convergere anarchia e mistica nella dissidenza: una dissidenza verso i dogmi del proprio tempo, affrontati e smontati all’interno dei tanti mondi da lui attraversati. C’è la dissidenza nei confronti dello “spirito tedesco”. In Zur Kritik der deutschen Intelligenz (1919) l’elemento teologico–politico è centrale. Lo scopo del libro, scrive Ball, è presentare «un cristianesimo che aspira da cent’anni, nella coscienza dei maggiori spiriti europei, a un rinascimento universale». Un rinascimento che deve rivivificare «lo spirito nazionale» annientato dall’«idea tedesca di Stato». Non si tratta, scrive Guerra, di «un tentativo neocattolico di ricostituire la civitas celeste sulla terra».

Ball critica il concetto di teocrazia, ossia l’intreccio di politica e religione che ha caratterizzato protestantesimo e prussianesimo, incarnati dalle figure esemplari di Lutero e Bismarck. A queste due oppone l’anabattista Thomas Müntzer e l’anarchico Bakunin, i quali «presi insieme delineano le coordinate storico– ideologiche davvero singolari del Ball più noto (…) orientato a una idea radicale di mistica negatrice di tutto ciò che è obbedienza ai sistemi costituiti, sia in senso trascendentale sia in senso squisitamente concreto, politico». È un’«altra teocrazia» quella a cui mira Ball, «fondata sul dominio del puro spirito, e dunque sulla rinvendicazione della sua assoluta libertà: un’altra teocrazia che, per così dire, contesta il kratos (potere, ndr) terreno di Dio rivendicando per lui il più assoluto di tutti i kratoi». Se un potere terreno «insediato da Dio è il sacrilegio dei sacrilegi », scrive Ball, allora appare più interessante, commenta Guerra, «verificare in quale misura sia possibile stabilire una “chiesa invisibile”, da un lato misticamente individuabile nell’unione degli esseri “liberi ed eletti nello spirito” (…) dall’altro teologicamente articolata in una oikoumene storico–dogmatica che si può definire “teocratica” nel suo senso più letterale: una comunità cioè in cui il kratos appartiene esclusivamente a Dio, il quale è a sua volta il solo in grado di articolare una “giusta” comunità politica”.

Sono temi che ritornano in filigrana in Cristianesimo bizantino (1923), il più noto dei saggi di Ball, esito della sua “reversione” al cattolicesimo. È un trattato storico-teologico su tre figure, a loro modo degli outsider, dell’ortodossia o meglio della “cattolicità”: Giovanni Climaco, l’autore della Scala del Paradiso, Simone Stilita e soprattutto (lo pseudo) Dionigi l’Areopagita con la sua teologia apofatica e della tenebra luminosa. Tre figure caratterizzate dalla via anagogica alla conoscenza del divino. In questo volume sono centrali il tema della liturgia, che è insieme fatto di comunità e fatto estetico, e della gerarchia (angelica e terrestre), la quale in quanto ordine è fatto politico. La politica sulla terra non può che essere simbolo, cioè legame (ontologico, secondo la dottrina dell’Areopagita, non solo semantico) con quella celeste. La polis degli angeli orienta quella degli uomini. È una politica acrobatica, verticale, asceticamente tesa in un cammino ascensionale sulla scala della perfezione. È il momento, scrive Guerra, «di una assunzione di dissidenza che si fa (…) compiutamente teologico-politica».

La pubblicazione di queste “tre vite di santi” viene assunta da Guerra «come punto culminante e decisivo di un processo intellettuale». Ball opererebbe una paradossale e profonda « Umwertung (la nietzscheana trasvalutazione, ndr) dei valori del Moderno condotta con le armi della fede, dell’ironia del paradosso». Il «cattolicesimo integrale» balliano appare come sintesi (egli stesso parla di completamento) delle precedenti lotte estetico-politiche e insieme conquista di una propria «identità di fede» in un percorso di depurazione «da ogni relazione mondana con il Potere».

Torniamo allora a Ball vestito da vescovo di cartone sul piccolo palco del Cabaret Voltaire, il teatro del mondo dove si sfida l’ottimismo dell’epoca. Il cabaret, scrive Ball, «rappresenta un gesto». È un gesto che, osserva Guerra, «vale da “messa-in-forma” della propria esistenza», unico modo «per raggiungere la sfera più assoluta ». Fatto artistico che si trasforma in pratica antropologica, il gesto consente a Ball la secessione dal mondo e di ricostituire, autosignificandosi, un altro orizzonte di senso. Dada è voce dalla semantica totipotente, è voce da infante: e infanzia è la fase della vita in cui, etimologicamente, è assente la parola. Appartiene dunque a una sfera pre-logica, sfugge alla griglia che piega la realtà al suo nome. La lallazione in tono ecclesiastico di Ball in mitria e piviale diviene una sorta di liturgia apofatica, una trance estatica che per via di regressione diventa itinerarium mentis ad Deum. L’esperienza Dada di Ball non è dunque solo operazione di decostruzione. Il non-sense appare come via di un suprasenso, condensata nella figura dell’artista-sciamano in un «gesto acrobatico – scrive Guerra – e assoluto, un gesto “magico” di evocazione di un’altra realtà».

Guerra riprende la categoria del gesto acrobatico del saltimbanco dallo Sloterdijk di Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica (ma la figura dell’artista come saltimbanco era stato già oggetto dell’analisi di Starobinski): l’acrobata è il modello di una autopedagogia anagogica composta di ascesa e ascesi, un esercizio di raffinamento corporeo e spirituale. Il dadaista (acrobata estetico), l’anarchico (acrobata politico) e il santo (acrobata sacro), sono accomunati da una «esistenza sempre azzardata, perché condotta sempre in un’ottica verticale e rischiosa (…) che deve culminare nell’annullamento mistico di sé».

Gabriele Guerra
L’acrobata d’avanguardia Hugo Ball tra dada e mistica
Quodlibet. Pagine 144. Euro 9,60

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