mercoledì 5 ottobre 2022
«Qui come a Roma si percepisce una strana atmosfera di decrepitezza, di morte, di fine del mondo. Più che in una strada si ha l’impressione di camminare in un canyon». Il nuovo libro dello scrittore
Michel Houellebecq

Michel Houellebecq - Epa/Javier Etxezarreta

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Si apre con Jacques Prévert è un imbecille e si chiude con Il caso Vincent Lambert non sarebbe dovuto accadere la raccolta di scritti di Michel Houellebecq, Interventi, che esce per La nave di Teseo (pagine 480, euro 22). Testi usciti su periodici francesi, inediti in Italia, col piglio controcorrente di Houellebecq, l’autore provocatorio di Le particelle elementarie di Annientare. «Ho cercato di persuadere i miei lettori della validità dei miei punti di vista, qualche volta sul piano politico, ma più spesso su diversi temi sociali ». Quasi 500 pagine dove, tra l’altro, si parla di Emmanuel Carrère, di Donald Trump o delle canzoni di Neil Young. Anticipiamo un brano dove Houellebecq parla del cinema novecentesco.

L’essere umano parla; talvolta, non parla. Minacciato, si chiude, i suoi sguardi perlustrano rapidamente lo spazio; disperato, si ripiega su se stesso, si avvolge attorno a un centro di angoscia. Felice, rallenta il respiro, esiste su un ritmo più ampio. Nella storia del mondo sono esistite due arti (la pittura e la scultura) che hanno tentato di sintetizzare l’esperienza umana mediante rappresentazioni fisse, movimenti interrotti. Esse hanno talvolta scelto di fermare il movimento nel suo punto di equilibrio, di massima dolcezza (nel suo punto di eternità): tutte le Madonne con Bambino. Hanno talvolta scelto di bloccare l’azione nel suo punto di massima tensione, di espressività più intensa – il barocco, naturalmente; ma anche tanti quadri di Friedrich evocano un’esplosione gelata. Si sono sviluppate per parecchi millenni; hanno avuto la possibilità di produrre opere compiute nel senso della loro ambizione più segreta: fermare il tempo. Nella storia del mondo è esistita un’arte il cui oggetto era lo studio del movimento. Quest’arte si è potuta sviluppare per una trentina d’anni. Fra il 1925 e il 1930, ha prodotto alcune inquadrature, in alcuni film (penso soprattutto a Murnau, a Ejzenštejn, a Dreyer), che giustificavano la sua esistenza come arte; poi è scomparsa, a quanto pare per sempre. Il cinema muto vedeva aprirsi davanti a sé uno spazio immenso: non era soltanto un’indagine sui sentimenti umani; non soltanto un’indagine sui movimenti del mondo; la sua ambizione più profonda era quella di costituire un’indagine sulle condizioni della percezione. La distinzione fra sfondo e figura costituisce la base delle nostre rappresentazioni; ma anche, più misteriosamente, fra la figura e il movimento, fra la forma e il suo processo di generazione, il nostro spirito cerca la sua strada nel mondo, donde la sensazione quasi ipnotica che ci pervade davanti a una forma fissa generata da un movimento perpetuo, come le ondulazioni stazionarie sulla superficie di uno stagno. Che ne è rimasto dopo il 1930? Alcune tracce, soprattutto nelle opere dei cineasti che hanno cominciato a lavorare ai tempi del muto (la morte di Kurosawa sarà più della morte di un uomo); alcuni istanti in film sperimentali, in documentari scientifici, addirittura in produzioni di serie. Questi istanti sono facili da riconoscere: ogni parola vi è impossibile; la musica stessa vi acquista qualcosa di un po’ kitsch, un po’ pesante, un po’ volgare. Diventiamo pura percezione; il mondo appare nella sua immanenza. Siamo molto felici, di una felicità bizzarra. Innamorarsi può produrre questo stesso genere di effetti. Nel film che progettava di girare sulla vita di san Paolo, Pasolini aveva intenzione di trasporre la missione dell’apostolo nel cuore del mondo contemporaneo; di immaginare la forma che essa avrebbe potuto assumere in mezzo alla modernità commerciale; questo, senza cambiare il testo delle epistole. Ma aveva intenzione di sostituire Roma con New York, e ne dà una ragione immediata: come Roma all’epoca, New York è oggi il centro del mondo, la sede dei poteri che dominano il mondo (nello stesso spirito, propone di sostituire Atene con Parigi, e Antiochia con Londra). Dopo alcune ore di soggiorno a New York, mi accorgo che c’è probabilmente un’altra ragione, più segreta, che solo il film avrebbe potuto rivelare. A New York come a Roma, malgrado il dinamismo apparente, si percepisce una curiosa atmosfera di decrepitezza, di morte, di fine del mondo. So bene che «la città è ribollente, è un crogiolo, vi circola un’energia pazzesca» ecc. Stranamente, però, avevo piuttosto voglia di rimanere nella mia stanza d’albergo, di guardare il volo dei gabbiani sulle installazioni portuali abbandonate delle rive dell’Hudson. Una pioggia leggera scendeva su magazzini di mattoni rossi; era molto rilassante. Mi immaginavo benissimo rinchiuso in un immenso appartamento, sotto un cielo di un bruno sudicio, quando all’orizzonte si sarebbero spenti a poco a poco gli ultimi bagliori rossastri di combattimenti sporadici. Più tardi sarei potuto uscire, avrei camminato in strade ormai deserte. Un po’ come gli strati vegetali si sovrappongono in un folto sottobosco, le altezze e gli stili si fiancheggiano a New York in un disordine imprevedibile. Più che in una strada, si ha talvolta l’impressione di camminare in un canyon, fra pareti rocciose. Un po’ come a Praga (ma più limitatamente; gli edifici newyorkesi abbracciano in fondo solo un secolo di architettura), si ha talvolta l’impressione di circolare in un organismo, soggetto a leggi di crescita naturale. È possibile che l’architettura umana raggiunga la sua massima bellezza solo quando, per ribollimento e giustapposizione, cominci a far pensare a una formazione naturale; come la natura raggiunge la sua massima bellezza solo quando, per giochi di luce e astrazione delle forme, lascia aleggiare il sospetto di un’origine volontaria.

(Traduzione di Sergio Arecco © 2022 La nave di Teseo editore, Milano)

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