venerdì 14 luglio 2017
Esposte a Ca' Pesaro ottanta opere di uno dei più grandi pittori contemporanei che riflettono sulle categorie di serialità e variazione. Più che il soggetto al centro ci sono gli affetti dell'artist
David Hockney "Dagny Corcoran", particolare (©David Hockney, foto Richard Schmidt)

David Hockney "Dagny Corcoran", particolare (©David Hockney, foto Richard Schmidt)

COMMENTA E CONDIVIDI

Ottanta ritratti e una natura morta. Potrebbe essere il titolo di un sequel televisivo dove a ogni puntata si scopre in un personaggio il dettaglio nascosto, il “particolare strano”, l’indizio che collega quel ritratto con l’idea della natura morta, come una reticenza eloquente. Perché se è chiaro che il titolo della mostra è ironico, d’altra parte il “pezzo unico”, la natura morta, è il testimone di un pensiero che fa apparire sotto una luce insolita e straniante il singolo ritratto.

Questi dipinti, esposti da pochi giorni a Ca’ Pesaro a Venezia, sono il frutto di tre o quattro anni di lavoro (2013-2016) del pittore inglese David Hockney, che ha appena compiuto ottant’anni. Ritratti e anni, dunque, accomunati dalla stessa cifra. La natura morta, che è anche metafora della vanitas, diventa così il reagente critico che fa emergere dai colori irreali il memento mori.


Per celebrare il genetliaco del pittore anche Parigi dedica a Hockney una vasta “retrospettiva” con oltre 160 opere esposte al Beaubourg. Il termine retrospettiva pare un congedo, poiché di solito si parla di antologiche per gli artisti viventi e di retrospettive per quelli che hanno già chiuso la loro parabola espressiva (perché non producono più o perché sono morti). In realtà, le opere di Venezia, che poi andranno anche a Bilbao e a Los Angeles, non sono affatto un congedo, potrebbero anzi costituire, sia pure dentro il linguaggio hockneyano codificato e riconoscibile anche nelle variazioni, una specie di ultimo inizio. Il conatus della vecchiaia vissuta come estremo gesto creativo, vedi Picasso o, secoli addietro, Tiziano e Michelangelo.

La serialità di questi dipinti incarna proprio il tema della variazione, anche in senso musicale. Resta intatto il nucleo di partenza e si riverbera nello spazio la sostanza individuale del personaggio raffigurato, di cui viene trascritto il nome, la parentela o il legame personale col pittore, infine il tempo impiegato per dipingere l’opera e la data di posa: in media due, massimo tre giorni. Come scrive Tim Barringer nel catalogo della mostra (Skira), l’intero corpus dell’opera di Hockney assomiglia a un album di famiglia. In genere il pittore non dipinge su commissione, ma decide lui chi ritrarre. E queste scelte elettive si protraggono per anni così che l’album oggi somma ritratti in età diverse dei genitori, gli amici, gli amanti (Hockney è omosessuale), gli assistenti che lo affiancano nello studio.

David Hockney, 'Celia Birtwell'(©David Hockney, foto Richard Schmidt)

David Hockney, "Celia Birtwell"(©David Hockney, foto Richard Schmidt) - ¬© Julie Green


Accanto a Lucien Freud e a Francis Bacon, Hockney è un vertice della ritrattistica inglese del secondo Novecento. Lui però si è formato anche in America, dove ha finito per stabilirsi, scegliendo di vivere a Los Angeles. Il biancore fosforescente dell’orizzonte californiano, le sue ville ipermoderne, minimaliste e kitsch, le piscine e quell’estetica edonistica e antitragica dove il pop si sposa al decorativismo che riveste la realtà imponendole una maschera lontana da ogni turbativa; ecco, questa visione diventa in Hockney lo sfondo per una seduta “fotografica” dove immagine fashion, iperrealismo, forma artificiale, i colori squillanti concorrono a dare la sensazione di gelido, anaffettivo cattivo gusto. In un certo senso, è il corrispettivo del minimalismo letterario degli anni Ottanta. Nei quadri più celebri di Hockney questa estetica è la spia di una “falsificazione” che l’artista condivide e stigmatizza nel medesimo istante. Los Angeles – la città degli angeli – è il paradiso della finzione e dell’edonismo come materia prima del mondo che ruota attorno al divismo hollywoodiano e della pittura di Hockney.

Gabriella Belli definisce Hockney «il più grande artista figurativo del nostro tempo». E Tim Barringer scrive che dopo gli inizi rivolti verso l’astrattismo, Hockney a metà degli anni Sessanta, con l’imporsi mondiale della Pop art, compie il salto della barricata e dichiara finita non soltanto la sua esperienza vicina all’espressionismo astratto, ma la parabola stessa dell’astrattismo come linguaggio che comunica con l’uomo contemporaneo ormai rivolto altrove e plasmato dai ritmi della panvisibilità televisiva, pubblicitaria, spettacolare. Dal feticismo pop Hockney sente di poter trarre gli elementi “figurativi” che lo spingono «verso il glamour quotidiano e l’interesse per l’immediata leggibilità e l’ampio successo» (Barringer). In realtà, l’iperrealismo della Pop art in Hockney si cristallizza in una visione surrealista decantata del pathos (negli anni Sessanta Hockney, aveva messo in scena a Londra l’Ubu Roy di Jarry).

Il pittore inglese ama la teatralità, evidente nella composizione di opere celebri come American Collectors (1968) oppure Mr and Mrs Clark and Percy (1970-71). Nel primo vediamo la crudele e perfida disposizione di una coppia di ricchi californiani, i coniugi Weisman, sullo sfondo architettonico della loro casa razionale, la cui estetica fredda enfatizza l’incomunicabilità che regna fra loro; nel secondo si coglie invece l’intrigante (balthussiana?) empatia fra il pittore e i Clark, suoi amici. Il contrasto fra le due opere è propriamente metafisico: il quadro dei Weisman è una rappresentazione “grafica”, bidimensionale, di un mondo riconosciuto come vero ma non verosimile nella qualità ontologica: sono larve in un teatro dove anche le ombre mostrano una frattura insolubile. Nel quadro dei Clark, invece, Percy, il gatto bianco seduto sulle ginocchia del ragazzo, è il catalizzatore della luce, insolita lampada di Diogene che illumina ciò che di umano può ancora sopravvivere nella società dell’edonismo capitalista. Il conflitto di queste due metafisiche è il conflitto interiore del pittore, che, al tempo stesso, si sente attratto e ironicamente lontano da un mondo nel quale, tuttavia, sembra immergersi come nella propria acqua prenatale.


E veniamo al nucleo dei dipinti esposti a Venezia. La materia pittorica è splendida ma anche stucchevole; due colori si ripetono sullo sfondo alternando azzurro e verde come piani spaziali astratti. Al centro si trova sempre la sedia sulla quale posa il personaggio. Tre sono i punti della costellazione magica che goveran lo sguardo dell’artista: il volto, le mani e i piedi. La posa è studiata con così meticolosa precisione, che a terra, davanti alla poltrona, l’assistente di Hockney traccia il contorno dei piedi del personaggio nel punto esatto in cui l’artista li ha voluti e che lì dovranno rimanere durante le due o tre giornate necessarie al pittore per eseguire il ritratto.

Difficile parlare di interiorità: sembra di vedere una divertita, talvolta proditoria, rappresentazione di fisiognomica sentimentale che il pittore ha composto ritratto dopo ritratto. L’effigie appare, di volta in volta, sontuosa, altezzosa, distratta, negligente, reticente, vanitosa, seriosa, stranita, aristocratica... più che l’immagine del personaggio, ogni ritratto è una faccia del caleidoscopio sentimentale dell’artista. Quel che osserviamo, ammirati dalla capacità di Hockney di tenere costante il grado di medietà espressiva e qualitativa nella ripetitività formale, è empatia rovesciata. Il ritratto diventa lo specchio che, come una macchina ostetrica, porta alla luce l’autobiografia affettiva dell’artista.

Venezia, Ca’ Pesaro

DAVID HOCKNEY

Fino al 22 ottobre

David Hockney 'Dagny Corcoran' (©David Hockney, foto Richard Schmidt)

David Hockney "Dagny Corcoran" (©David Hockney, foto Richard Schmidt) - ¬© DAVID HOCKNEY


© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: