venerdì 31 dicembre 2021
Il grande cantante lirico spagnolo svela ricordi, paure, trionfi e umiliazioni di una carriera straordinaria: «Tra gioie e dolori quelli del #metoo sono stati giorni bui, mi ha salvato il pubblico»
L'ottantenne cantante lirico e direttore d’orchestra spagnolo Placido Domingo

L'ottantenne cantante lirico e direttore d’orchestra spagnolo Placido Domingo - / Fiorenzo Niccoli

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Fine anno, si sa, è tempo di bilanci. Tempo di tirare le somme. «Ho avuto più di quanto potessi immaginare. In tanti anni ho conosciuto persone straordinarie e ho potuto fare della mia passione il lavoro di tutta la mia vita» riflette Placido Domingo nell’ultimo giorno di questo 2021. «L’anno dei miei ottant’anni» sorride il tenore spagnolo che oggi canta da baritono e che ama anche salire sul podio per dirigere. «Sono nato a Madrid, ma quando avevo otto anni con i miei genitori ci siamo trasferiti in Messico » racconta Domingo dalla capitale spagnola. «Ogni anno per Natale riunisco la mia famiglia sparsa in giro per il mondo. Ci sono tanti ricordi che tornano. Ricordi dei Natali passati con chi oggi non c’è più, amici che, però, sento ancora tanto vicino. E poi c’è la gioia di vedere tutto l’entusiasmo dei miei nipoti che preparano feste e spettacoli con musica. La famiglia è la mia forza, un rifugio sicuro dove mi sento amato».

Centocinquanta ruoli, una quindicina come baritono, in oltre quattromila recite, più di seicento volte sul podio. Ma se dovesse scegliere, Placido Domingo, tenore, baritono o direttore?

Ogni stagione della vita è diversa. Adesso mi sento a mio agio come baritono e sono ben felice di aver lasciato i ruoli da tenore che, intendiamoci, ho amato tantissimo, Otello, Cavaradossi, Don José, Siegmund… E come direttore sono ben felice di poter alternare questa mia passione al canto.

Sono pochi i giorni liberi in agenda. Dove trova la forza?

L’entusiasmo per la vita e per la musica e poi quell’energia che arriva dal pubblico: quando sei sul palcoscenico la senti e ti ripaga di ogni sforzo. Certo quando sei giovane non senti quasi la fatica, ma con gli anni devi imparare a misurarti anche con te stesso per cercare di dare sempre il massimo.

Quelle che prova oggi sono le stesse sensazioni che provava all’inizio?

Assolutamente sì, non c’è una serata in cui possa dire di non aver provato quel misto di nervi e adrenalina. Non esiste la routine! E poi bisogna essere in forma e anche cercare di trasmettere emozioni al pubblico, mettendo da parte i pensieri o le preoccupazioni personali per dare tutto al personaggio che si interpreta.

Le capita di pensare a un addio alle scene?

Tutto secondo me deve avvenire in modo molto naturale. Verrà un giorno in cui dirò: “Ecco questa era la mia ultima recita!” senza stare a fare troppi piani. Calato il sipario andremo tutti a cena, come al solito. Se seguiamo il mito della bellezza e dell’eterna giovinezza, travolti da questa vuota frenesia, è facile sentirsi fuori posto già con la metà dei miei anni. Penso che se le cose si fanno con passione allora gli anni che passano possono arricchirci dentro. La musica per me non è un lavoro, che uno lascia prima o dopo, per me è parte della mia vita.

La sua era una famiglia di musicisti, dunque per lei un destino segnato?

Ho avuto un’infanzia bella anche se per due anni sono stato lontano dai miei genitori perché loro erano andati per lavoro in Messico e io e la mia sorellina eravamo rimasti a Madrid affidati alla sorella di mia madre, la nostra amatissima zia Agustina. Non esistevano le videochiamate e per attraversare l’oceano abbiamo fatto un mese di nave. Sono quasi nato in teatro perché fino al nono mese mia madre ha continuato a cantare la zarzuela. Sono poi cresciuto in teatro e la sera non volevo mai andare a dormire perché ero affascinato da quel mondo... anche se da bambino sognavo di fare il torero o il calciatore.

Tra i ruoli con i quali ha scritto la storia della lirica quale il più amato?

Otello è senz’altro il ruolo che mi ha dato di più perché è una grande prova di interpretazione che ti fa crescere anche per affrontare altri ruoli. Oggi veramente mi sento in sintonia con i ruoli di padre, soprattutto quelli nati dal genio di Verdi. Sono personaggi pieni di umanità e questo arriva in modo più vero al pubblico.

Applausi, trionfi, ma quando torna a casa cosa fa Placido Domingo?

Appena ho qualche giorno libero mi piace stare con i miei figli e con i miei nipoti e così faccio il nonno, li ascolto, ci divertiamo e facciamo anche musica insieme. Scopro un sacco di cose e li vedo crescere. Con loro ascolto un po’ di tutto, sono adolescenti, ma amano anche la musica classica e quando possono mi vengono a sentire. Siamo appassionati di calcio e di Formula 1 e appena c’è l’occasione andiamo insieme a vedere questi sport.

Qualche anno fa la malattia, arrivata improvvisa. Cosa l’ha aiutata a trovare la forza per andare avanti?

La malattia fa parte delle prove che la vita ti mette davanti. La cosa più dolorosa per me è stato vivere la malattia delle persone care: quello mi ha fatto più soffrire in assoluto. Mentre quando io mi sono trovato in situazioni più serie di salute, e negli ultimi anni mi è capitato più di una volta, devo dire che il pensiero maggiore era rivolto a mia moglie e alla mia famiglia perché sentivo che soffrivano per me e non volevo questo. La vita ci dà prove alle quali non possiamo sottrarci e allora credo che l’unica cosa sia cercare di trovare la forza nella fede.

La fede che posto ha nella sua vita?

È una domanda complessa, credo che sia davvero difficile poterla conquistare proprio perché siamo esseri umani, è il nostro limite. Ma forse questo limite che ci riempie di domande e di dubbi è anche la nostra forza. Sento che nelle prove della vita la fede è come un sollievo e nei momenti belli di ogni giorno avverto il bisogno di ringraziare.

Sull’onda di un movimento che specie negli Stati Uniti si è fatto strada, anche su di lei si sono allungate le ombre del #metoo. Cosa ha provato?

Sono stati giorni bui, soprattutto per l’enorme onda mediatica che si era sollevata e mi aveva travolto come un fiume in piena. Devo dire grazie alla mia famiglia e agli amici veri che mi sono stati accanto. Più che pensare alla mia carriera quello che mi angustiava era cosa avrebbe pensato di me la gente che veniva a sentirmi a teatro. Ma la prima volta che ho messo piede sul palcoscenico a pochi giorni dall’esplosione di quello tsunami è stato al Festival di Salisburgo e non posso dimenticare l’emozione che ho sentito quando il pubblico, prima che io aprissi bocca, mi ha accolto con un applauso che è stato per me come un abbraccio.

Ha dovuto affrontare anche il ricovero per il Covid…

Quei giorni sono stati una dura prova. Grazie al cielo sono guarito bene, ma la paura era forte tanto più che anche mia moglie si era ammalata. La cosa più orribile è la solitudine a cui questa malattia ti costringe, la condanna a essere solo, a non poter vedere il volto delle persone che ami. Ho pensato che avrei potuto non farcela e che poteva anche essere la fine. Tanto più che ho visto molti amici andare via.

Chi le manca?

Ci sono persone a cui si deve dire addio, ma dalle quali non ci si separa mai, perché anche se non le posso più vedere le sento sempre accanto, come se il dialogo con loro non fosse mai finito. Mi manca tanto mia sorella e anche se ormai sono bisnonno spesso penso ai miei genitori.

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