Di fronte al materiale offerto dalla mostra, si è costretti a cercar di capire i propri sentimenti. Il mio, è duplice. Anzitutto, mi colpisce lo spogliamento radicale di quest’uomo, privato non solo dei suoi vestiti, così importanti per lui, per costruire la propria immagine, ma privato anche della sua epidermide, 'cosificato'. Mi vengono in mente analoghe radiografie di vittime dello sterminio, che ho visto a Mauthausen: l’uomo denudato, violato nella sua intimità, trafitto dal raggio come la farfalla dallo spillone. Nell’ultima stanza della mostra, si cerca di restituire vita a quel corpo, ricostruendo i battiti del suo cuore. È come se si dicesse che Hitler continua a vivere o, meglio, continua a vivere il male che ha trovato in lui così terribile manifestazione. Viene in mente l’ultima pagina del romanzo di Camus: il batterio della peste è nascosto negli anfratti della città, per ricomparire a suo tempo. Tuttavia, questa interpretazione seducente non mi tocca, quanto invece la sorte individuale di quest’uomo.
La mostra potrebbe essere interpretata come una vendetta, la riduzione a numeri e parametri dell’uomo, che aveva voluto questo per i suoi simili. Egli volle che il suo corpo fosse bruciato, proprio per evitare di essere consegnato alle mani di chi avrebbe potuto rivalersi sulle sue spoglie. È noto il suo orrore di fronte alla notizia che Mussolini era stato impiccato per i piedi a Piazzale Loreto. Ebbene, l’operazione di cancellare l’ultima traccia di sé non gli è riuscita completamente: un frammento importante, l’impronta del suo corpo è caduta nelle nostre mani. Forse, Antonello Fresu ha voluto gettare nelle nostre mani questo materiale, frammentario e incompleto fin che si vuole, ma sufficiente per porci la domanda: «Adesso che hai nelle mani il corpo di Hitler, che cosa ne intendi fare? ». Infatti, non ci si può sottrarre alla richiesta di prendere posizione. È addirittura possibile che ci sentiamo ancor più coinvolti: «Che cosa avrei fatto io, che cosa farei, se avessi la totale disponibilità del corpo di quest’uomo, del suo cadavere, oppure, ancora di più, di lui ridotto a scheletro vivente, non per una radiografia, ma per la fame, per la violenza, per la spoliazione di ogni dignità?».
La mia personale reazione si condensa in una domanda, che mi ha colpito, appena ho avuto notizia di questa iniziativa: Questo corpo risorgerà? La fede nella “risurrezione della carne” è uno dei dogmi del credo cristiano. Non è molto considerato e talvolta viene dimenticato per pudore, quasi fosse un residuo mitologico. In realtà, si tratta di qualcosa che ha origine dal centro stesso della fede cristiana. Il corpo non è, cartesianamente, la macchina mossa dall’anima, a lei collegata tramite la ghiandola pineale. Noi siamo un corpo. È la materia che ci individua. Noi siamo quello che siamo perché viviamo in un tempo e in un luogo; le nostre esperienze, vissute tramite il corpo, determinano la costituzione del nostro io. Soprattutto, il corpo è il veicolo della relazione con l’altro. Cartesio, proprio per il legame così lasco tra anima e corpo, pone la felicità massima nella contemplazione del proprio io pensante. Ma l’uomo d’oggi vede in questo solitudine e infelicità, perché aspira all’incontro con un tu che gli stia a fronte. La persona si costituisce tramite la sua storia, e la propria storia l’uomo la vive nel corpo. Il cristiano crede nell’Incarnazione del Figlio di Dio: «Il Verbo si è fatto carne», dice il prologo del Vangelo di Giovanni. L’incontro con il Cristo avviene mediante il sacramento del Corpo, l’Eucaristia. Tutto questo dà un valore assoluto al singolo uomo: ogni uomo è il soggetto al quale si rivolge l’iniziativa divina, ogni uomo è chiamato, come un Tu assolutamente singolare, a dare una risposta assolutamente singolare. La morte non può distruggere questa relazione. Anzi, Gesù ci dà l’esempio della morte come atto supremo di comunione, col Padre e con i suoi fratelli. Dunque, senza un corpo, la comunione è incompleta o, addirittura, non esiste. Per questa ragione, Dio vuole la risurrezione della carne: la vuole, perché vuole la comunione con l’uomo.
Ora, la domanda è proprio questa: può Dio volere la comunione con Hitler? Se rispondiamo di sì, allora i frammenti che contempliamo in questa mostra sono cosa sacra. Ma il nostro spirito si ribella. Si ribella anche alla formula della “banalità del male”. Di fronte ai campi di sterminio, siamo piuttosto portati a pensare a un male straordinario, eccezionale. Eccezionale vuol dire anche altro da noi, mentre la banalità suggerisce che anche noi saremmo potuti giungere a tali abissi. Condannare Hitler all’inferno, in qualche modo ci rassicura, perché crea una demarcazione tra noi e lui. Siamo noi, però, autorizzati a pronunziare questa sentenza? D’altra parte, coloro che hanno così terribilmente sofferto, non hanno forse il diritto di chiedere al Giudice le sue motivazioni? Certo, potremmo invocare la pietà. Ma sarebbe una pietà a buon mercato, un 'perdonismo' facilone e ingiusto.
Tuttavia, la domanda va posta, anche perché altri “mostri” continuano a comparire, a Srebrenica, in Congo, in Medio Oriente. Ora, la domanda dev’essere posta a Dio: sei Tu in grado di guardare in faccia questo male? Questi uomini continuano ad appartenerti? Tieni presente che se rispondi di sì, allora ti stai prendendo la responsabilità del male da loro commesso. D’altra parte, se Tu li condanni, in nome di quale giustizia Tu li condanni? C’è forse una giustizia superiore a Te, alla quale anche Tu devi inchinarti? Tu ti rendi conto perfettamente che sei stretto nell’alternativa: o diventi anche Tu sottoposto a un sistema di valori, che Tu stesso hai contribuito a creare, ma che ora Ti rendono irrilevante, perché noi li porteremo avanti, magari in nome tuo, ma affrancati dalla tua tutela. Oppure, Tu sei il Totalmente Altro, l’Incomprensibile, che richiedi un’obbedienza cieca: ma l’enormità del male ci autorizza a rifiutare la rinuncia al giudizio e Tu, ancora una volta, sarai convocato al tribunale dell’uomo.
Di fatto, questo è già avvenuto. La scelta di Barabba è anche la protesta verso un Dio che non dà spiegazioni, che rifiuta di correggere la sua creazione, che osa riconoscere all’uomo una libertà che può giungere fino a costruire Auschwitz. Alla domanda: può Dio prendere la responsabilità del male commesso dall’uomo? la risposta è sì. Questo è avvenuto sul Golgota. Lì, Dio ha accolto radicalmente il rifiuto dell’uomo, ha accettato che l’uomo lo respingesse fuori dalla storia, ha assunto in sé le conseguenze della scelta di Adamo. Ma ha trasformato tutto questo nell’atto supremo della sua presenza. «Dio è morto», proclamò Nietzsche, per dichiararne l’irrilevanza; «Dio è morto», è stato il grido d’angoscia di coloro che hanno rinunciato alla speranza, perché non hanno avuto risposta alla loro richiesta d’aiuto. «Dio è morto», diciamo anche noi, con reverenza, poiché riconosciamo nella croce questa inflessibile volontà di comunione, che acquisisce il diritto di afferrare l’uomo, ogni uomo, poiché si è fatta carico del suo dolore e persino della sua malvagità.
Per questo, penso che anche Hitler risorgerà. Negarlo, vorrebbe dire dichiarare limitata l’efficacia del sangue di Cristo. In mezzo alle infinte croci da lui piantate, questa mostra erige la croce di Hitler, denudando la sua miseria, l’oscenità del male del quale si è reso responsabile. Ma in mezzo a queste croci, anzi, vicino a questa, che il giudizio dell’uomo legittimamente considera meritata, c’è la croce di Gesù. Penso che uscirò dalla mostra, allo stesso modo in cui gli spettatori si sono allontanati dal Calvario: «Tutta la folla, che era venuta a vedere questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornava battendosi il petto» (Lc 23,48).