mercoledì 11 marzo 2020
Già nel 1969 il Nobel Simon ne sottolineava il valore economico. Uno studio di Campo evidenzia le dinamiche sociali e umane di questo bene individuale oggi tanto conteso dai nuovi media
Facciamo attenzione all'attenzione, è l'ultimo baluardo di libertà

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«La Pasqua scorsa i miei vicini hanno comprato per la loro figlia un paio di conigli. Non so se intenzionalmente o per sbaglio, fatto sta che uno era maschio e l’altra femmina, e così ora viviamo in un mondo ricco di conigli. Che un mondo sia ricco o povero di conigli è una questione relativa. Ma poiché il cibo è essenziale per le popolazioni biologiche, potremmo giudicare se il mondo è povero o ricco di conigli, mettendo a confronto il numero di conigli con la quantità di lattuga ed erba a loro disposizione. Un mondo ricco di conigli è un mondo povero di lattuga e viceversa». Attraverso questa metafora, nel lontano 1969, nel corso della conferenza “Progettare organizzazioni in un mondo ricco di informazioni”, oggi pubblicata nel volumetto Il labirinto dell’attenzione (Luca Sossella Editore, pagine 94, euro 10), Herbert Simon conduce a riflettere su come in un mondo abbondante di informazioni la risorsa che viene a mancare sia l’attenzione, inaugurando una branca di studi chiamata economia dell’attenzione.

Non si può dire che il futuro premio Nobel per l’economia non intuisca anzitempo questioni che solo oggi bussano alla porta. Il 1969 era l’anno in cui era partito il primo collegamento internet tra le due sponde dell’Atlantico e del timore che le nuove tecnologie producessero effetti negativi sulle facoltà mentali nessuno aveva contezza. Sovraccarico cognitivo, deterioramento dell’attenzione, difficoltà di concentrazione erano fantasmi ancora lontani, eppure Simon capì che con questi problemi prima o poi si sarebbero dovuti fare i conti.

Certo l’approccio di Simon è marcatamente utilitaristico ed economicista, e l’individualismo è il suo metodo di ricerca, ma il problema che tocca è sensibile. Considerare l’attenzione alla stregua di una risorsa, tuttavia, fraintende quanto essa pesi nella vita di ognuno. Ridurla a bene conteso da operatori economici misconosce quanto l’attenzione conti nella definizione dell’autonomia individuale e collettiva. Attraverso di essa maturano infatti le modalità con cui gli uomini diventano tali. O per dirla alla maniera di certi filosofi: l’attenzione riguarda i modi e le forme della individuazione o soggettivizzazione. Merito del sociologo Enrico Campo è di condurre la sua ricerca lungo una direzione non economicista come racconta La testa altrove. L’attenzione e la sua crisi nella società digitale (pagine 272, euro 28), appena pubblicato dall’editore Donzelli.

Il dito puntato sulle nuove tecnologie è evidente. L’iperconnessione e la richiesta di essere multitasking sarebbero all’origine di diffuse difficoltà di memorizzazione, di scarsa produttività, di dispersione. Eppure lo sforzo di Campo porta a uscire dalla spirale interpretativa che costruisce un rapporto causale tra tecnologie digitali e distrazione. Il fenomeno dell’attenzione infatti sfugge alle considerazioni meccanicistiche come all’atteggiamento individualista. La relazione attentiva non si edifica su un rapporto uno a uno, di causa ed effetto, tra uomo e strumenti digitali. Come se il mondo circostante non ci fosse. Per comprenderla a fondo bisogna invece cogliere l’organizzazione sociale dell’attenzione e non il suo aspetto individuale.

Campo indaga l’attenzione abbandonando il paradigma cartesiano, che chiude il soggetto dentro la sua testa. Adottando gli strumenti offerti dalle scienze cognitive meno riduzioniste, tra cui quelli partoriti da Gregory Bateson, e dalla ricerca sociale d’impronta fenomenologica, da Alfred Schütz a Erving Goffmann, Campo allarga l’idea di mente al fine di sottrarla ai condizionamenti dello psicologismo, da un lato, e dell’individualismo dall’altro. La mente, e di conseguenza l’attenzione, non sarebbe una realtà rinchiusa entro la teca cranica. A condizionarne modulazione e sensibilità non sono certo esclusivamente variabili soggettive e cognitive. Intervengono invece cultura, relazioni sociali, narrazioni e quindi apparati tecnici. E questo vale anche per l’attenzione, che spazia tra ambiti diversi, sfonda confini e danza da un dominio all’altro. Di conseguenza il modello attentivo intrappolato tra deep attention, l’attenzione focale prolungata su un unico compito, e l’hyperattention, un’attenzione volatile, prossima alla dispersione, risulta inadeguato per descrivere l’attenzione ai tempi del digitale.

Entrambi questi atteggiamenti attentivi rappresentano degli eccessi poco consapevoli dei regimi di attenzione che contraddistinguono l’uomo. Egli vive contemporaneamente più mondi e non gli basta l’attenzione focale. Abita un mondo pubblico e uno privato, uno lavorativo e uno familiare, un mondo degli affetti e quello dell’interesse, quello dello svago e quello dell’impegno e infiniti altri che si intersecano tra loro. Ognuno di questi mondi reclama l’attenzione dell’uomo ed egli varca di continuo i confini tra l’uno e l’altro. Non si focalizza su uno soltanto, la sua mente eccede i confini e l’attenzione necessaria a consentirgli questo è qualcosa di più complesso dell’attenzione focale. Sarebbe inutile lamentarsi del suo deteriorarsi.

Occorre invece riflettere su come l’attenzione venga attirata su uno o sull’altro di questi mondi per essere valorizzata, misurata e trasformata in un bene da scambiare sul mercato. Quindi, al tempo dei big data, l’attenzione diventa sempre più economicamente rilevante, soprattutto con le tecnologie dell’informazione che producono e vendono contenuti. Ma «delegare al singolo individuo - conclude Enrico Campo - la capacità di resistere all’offensiva permanente ha l’effetto perverso di fomentare i sensi di colpa».

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