giovedì 12 gennaio 2012
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Aveva ragione la vecchia Alice: all’origine fu la festa del «non compleanno». Ma non solo nel magico Paese delle meraviglie: anche in quello più prosaico e banale in cui noi tutti si vive. Oggi che i compleanni sono spesso esagerati – effetto del protagonismo individualista imperante – sembrerà strano sapere che il primo happy birthday festeggia a malapena il suo duecentodecimo compleanno. Soltanto?!? Già; in precedenza, difatti, gli uomini sembravano interessati piuttosto alla data di decesso, e tutt’al più si segnavano quella della venuta al mondo (con una precisione fino all’ora) solo nel caso dei grandi personaggi e per questioni di indagini astrologiche: non certo per poter spegnere le fatidiche candeline sulla torta ad ogni anniversario. Questo almeno finché non compì 53 anni Johann Wolfgang Goethe, appunto nell’agosto del 1802: perché fu il papà del Giovane Werther a «inventare» la celebrazione del compleanno così come oggi la intendiamo. Lo svela la curiosa e dotta indagine di Jean-Claude Schmitt, storico francese già noto per i suoi titoli «strani», di cui L’invenzione del compleanno esce oggi per Laterza (pp. 120, euro 18). Più esattamente, l’autore delle Affinità elettive risulta essere stato lungo tutta la vita un appassionato cultore dei suoi anniversari di nascita, che gli servivano quali ricapitolazione dell’esistenza e bilancio degli ultimi 12 mesi, ma cui riceveva pure importanti regali e faceva feste che alla fine toccavano una solennità regale. Nel 1802 ebbe appunto una torta con 53 candeline: e fu una sorta di consacrazione per il genetliaco modernamente inteso, ovvero – come scrive Schmitt – il «piccolo rito personale e familiare che non beneficia dei fasti dei riti religiosi e pubblici» ma che dall’Ottocento in poi in modo crescente, almeno nella civiltà occidentale sempre più industriale e secolarizzata, minaccia se non sostituisce altre periodizzazioni più tradizionali, legate ai ritmi della natura (le stagioni) ovvero al calendario sacro. Il compleanno, dunque. A dir la verità, precursori ce ne sono stati: il nostro storico individua in Marco Polo la prima testimonianza letteraria dell’anniversario di nascita, quello di Kublaj Khan, che veniva festeggiato come una delle due maggiori feste dell’anno. Ma per l’appunto il viaggiatore veneziano annota tale uso come eccentrico, segno che dalle sue parti non usava così. E difatti si trattava di un’eccezione per la cultura europea del tempo, la quale – fin dai Padri della Chiesa e ancor prima dalla Bibbia medesima (non a caso Erode fa giustiziare Giovanni Battista il giorno del suo compleanno) – considerava il ricordo del genetliaco come una pratica pagana; forse perché nell’antichità la ricorrenza della nascita del sovrano era celebrata con feste addirittura mensili e sacrifici di ringraziamento agli dei. Nel Medioevo invece è piuttosto «il pensiero della morte e dei morti, e non quello della nascita, che ha ispirato agli uomini l’attenzione per il ciclo ricorrente degli anni»; cattolicamente parlando, l’unico anniversario di cui tener conto era quello del trapasso, vero dies natalis alla vita vera – oltre che data da memorizzare per organizzare i necessari suffragi post mortem. Schmitt annovera peraltro alcune interessanti eccezioni, come il prelato avignonese Opicino de Canistris – che nella sua autobiografia trecentesca ingloba un diagramma circolare della sua esistenza suddivisa per anni – o ancor meglio tal Matthäus Schwarz, mercante e banchiere tedesco del Cinquecento col vezzo di farsi rappresentare in ognuno dei 137 abiti da lui indossati durante l’esistenza per varie occasioni, compleanni inclusi. Ma siamo ormai oltre il vallo dell’umanesimo: e se «l’anniversario della nascita consiste nella valorizzazione della vita dell’individuo di per sé, del suo corso, della sua scansione propria» – come annota lo storico – non stupisce che siano proprio umanisti quali Albertino Mussato, Coluccio Salutati, Poggio Bracciolini e soprattutto il loro massimo «precursore» Francesco Petrarca a dimostrare attenzione per le date della propria esistenza e tra esse quella che poi serviva alla misurazione dell’età. Stessa necessità dimostrano, sempre a partire dal XIV secolo, le classi ricche e nobili, per farsi compilare un oroscopo basato sulla posizione delle stelle al momento esatto della venuta al mondo; e determinarlo non doveva essere compito da poco, considerata la fluttuazione dei calendari in uso all’epoca, quando l’inizio dell’anno poteva variare anche a seconda del luogo... A rafforzare la posizione del compleanno (anche se Schmitt è cauto, in assenza di studi più approfonditi, ad accettare del tutto la tesi) contribuirono poi la Riforma protestante – con la sua radicale contestazione dei santi e dunque degli onomastici, sorta di surrogato «cattolico» del genetliaco – e più oltre la Rivoluzione francese, che promosse l’anagrafe statale e sancì la conseguente nascita dei... certificati di nascita. In effetti, salta tuttora all’occhio l’indole «laica» della festa di compleanno, sganciata da ogni periodizzazione religiosa o liturgica. Il mondo si secolarizza, s’imborghesisce e dunque si individualizza; i termini della singola esistenza biologica diventano alfa ed omega fondamentale del tempo anche sociale, per lo meno della piccola comunità che circonda la vita di ciascuno: «Il compleanno moderno è apparso soltanto quando ha cominciato ad affrancarsi dalla tradizione cristiana del Medioevo... Non c’era posto per una celebrazione "religiosa" della ricorrenza della nascita». Il romanticismo ci ha messo ovviamente del suo, trasformando il compleanno in intima festa di famiglia: Charles Dickens, George Sand, Victor Hugo danno conto dei propri nei rispettivi epistolari o nei diari. Come sunteggia Schmitt, «il lento costituirsi della pratica del compleanno, dei suoi riti – auguri, canzoncina, dolcetti, regali, candeline» avviene «soprattutto negli ambienti aristocratici dell’epoca moderna, nella borghesia del XIX secolo e infine, ma non prima del XX secolo, negli ambienti popolari». Non per nulla l’universale ritornello dell’Happy Birthday to you sta proprio a cavallo tra Otto e Novecento, risalendo al 1893 per la musica (dovuta a Milldred J. Hill) e al 1924 per le parole, scritte da Patty Smith Hill: due sorelle maestre d’asilo nel Kentucky. E chissà cos’avrebbe detto Goethe, se qualcuno gliel’avesse cantato mentre spegneva le sue 53 candeline.
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