martedì 31 gennaio 2012
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Trent’anni, una laurea in Economia e una carriera di consulente aziendale alle spalle. Il 26 febbraio, Danfung Dennis vivrà il brivido della notte degli Oscar al Kodak Theatre di Hollywood. Il suo lungometraggio, Hell and Back again, è il titolo favorito alla vittoria per la categoria «miglior documentario».Dal 2006, Dennis ha mollato la vita in cravatta per indossare una mimetica e raccontare con una macchina fotografica i conflitti in Iraq e Afghanistan. Dopo aver pubblicato reportage per quotidiani e magazine di tutto il mondo, ha deciso di allargare ulteriormente gli orizzonti: sperimentando la produzione video. E così nel 2009 ha scelto una macchina fotografica Canon 5D Mark II per girare quello che, finora, è stato il suo «capolavoro». Due riconoscimenti al Sundance Film Festival, premi a Londra e a Mosca. E ora la soddisfazione della nomination per gli Academy Award.Come nasce «Hell and Back again»?Sono stato insieme alla Echo Company durante l’assalto nella zona della Helmand River Valley in Afghanistan. Finite le riprese avevo 45 ore di girato. La prima volta che le ho riviste mi sono detto «Oh no, qui non c’è niente, è solo un mucchio di materiale». Era davvero difficile scegliere cosa raccontare tra i molti filoni narrativi possibili. Alla fine mi sono focalizzato sulla storia del sergente Nathan Harris. Ho seguito la sua vicenda, dal ferimento in Afghanistan fino al suo ritorno in America, nella sua cittadina nel North Carolina. Il documentario racconta due storie parallele che si incrociano con l’uso del flashback dando vita a un unico piano narrativo.Qual è il significato del titolo «all’inferno e ritorno»?Ho voluto raccontare la difficoltà di reinserimento dei soldati nella società quando la gente che sta intorno a loro non può capire l’esperienza che hanno vissuto. Gran parte della popolazione americana non avverte appieno la drammaticità di un conflitto lontano e questo scarto si traduce nella difficoltà che i reduci incontrano nel tornare a casa.Per le riprese hai utilizzato una macchina fotografica…La Canon 5D è capace di produrre immagini di una qualità pari a quella cinematografica, ma ho dovuto adattarla alle mie esigenze, per esempio dotandola di uno stabilizzatore e di un’imbragatura. L’attrezzatura finale era molto pesante e ci ho messo due mesi per allenare le mie braccia a sostenerla.Che tipo di immagini cercavi?Con la macchina fotografica potevo essere più vicino al soggetto fisicamente ed emotivamente. Cercavo di rendere visualmente le emozioni per portare lo spettatore il più possibile dentro la storia.I vertici militari ti hanno imposto dei limiti durante le riprese? Dovevo rispettare la regola fondamentale di non divulgare, prima di un’operazione militare, le informazioni capaci di compromettere la sicurezza delle truppe. Una volta finito il documentario però nessuno mi ha chiesto di controllare il film.Hai una laurea in economia, come hai deciso di fare il fotoreporter?I miei studi derivano dall’interesse, che ho sempre avuto, di comprendere i meccanismi economici che governano il mondo. Scattare fotografie e raccontare storie, invece, è sempre stata una passione. Cerco di produrre immagini oneste, veritiere e ricche di significato allo stesso tempo. Il mio scopo principale non è quello di lavorare solo in vista della pubblicazione, tant’è vero che quando sono partito per l’Afghanistan nessuno mi aveva garantito di acquistare le mie immagini. Solo un editore mi disse: «Se ci porti delle belle foto potremmo comprarle». Disse solo "potremmo"…  e io sono partito.
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