sabato 26 agosto 2017
A ottant’anni dal bombardamento della città basca e dal celebre quadro. Perché quel capolavoro può essere oggi l'emblema dell’attuale «guerra civile mondiale». Un libro di Luigi Bonanate
Guernica di Picasso esposto nel 1953 a Milano nella Sala delle Cariatidi (foto di René Burri)

Guernica di Picasso esposto nel 1953 a Milano nella Sala delle Cariatidi (foto di René Burri)

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Il 27 aprile 1937 il giornalista George Steer scrisse un pezzo per il “Times”. Era il primo giornalista a mettere piede a Guernica – Gernika, nell’idiona basco –, dopo il bombardamento degli stukas tedeschi della Legione Condor, che ridusse la città a un cumulo di rovine. Ci si è sempre chiesti perché venne scelta come obiettivo una piccola città compiendo una strage di civili inaudita. La disinformazione bellica sull’avvenimento ha avuto la sua parte, e forse ancora opera sul giudizio degli storici. Tuttavia non è così strano che sia stata scelta proprio Gernika: i Paesi Baschi avevano ottenuto l’anno prima l’autonomia dal governo spagnolo, e la Navarra, che confinava con essi, era una roccaforte del franchismo; si volle dunque colpire al cuore l’identità basca che a Gernika aveva anche un suo simbolo: il Gernikako Arbola, “l’albero di Gernika”, la quercia secolare sotto la quale giuravano i sovrani della Biscaglia e poi anche i lendakari, cioè i presidenti della comunità autonoma dei Paesi Baschi. E nel suo resoconto del disastro, George Steer scrive che nel bombardamento «la famosa quercia di Guernica, il ceppo ormai secco vecchio di 600 anni e i giovani nuovi germogli, è rimasta anch’essa intatta». Pensiamo all’orgoglio dei baschi che, pur feriti nel corpo e nel morale, potevano dire ai loro nemici: avete fallito. Ma la storia non è mai semplice.


Dunque riepiloghiamo. Gernika, il bombardamento: 26 aprile 1937. Guernica, il quadro: era stato commissionato a Picasso poche settimane prima dal governo spagnolo guidato da Francisco Largo Caballero (che era anche ministro della Guerra: si dimise il 17 maggio, sostituito dal socialista Juan Negrin, più gradito ai comunisti); il 12 luglio 1937 Guernica viene mostrato per l’inaugurazione del Padiglione spagnolo all’Exposition internationale des arts et des tecniques dans la vie moderne (in mezzo a molte altre opere). I nazisti – che all’Expo 1937 esibivano i muscoli con un padiglione progettato da Albert Speer un po più alto di quello sovietico progettato da Iofan – in una guida alla rassegna scrissero che il dipinto di Picasso era un «guazzabuglio di parti di corpo che anche un bambino di quattro anni avrebbe saputo dipingere» (una settimana dopo a Monaco fu inaugurata la mostra dell’“Arte degenerata”). Ma, quel che è peggio, anche il pittore muralista José María Ucelay, commissario del Padiglione spagnolo per i baschi, giudicò negativamente l’opera: «Sette metri per tre di pura pornografia, che gettano merda su Gernika». E Antony Blunt, storico dell’arte inglese e spia al soldo dell’Urss, la considerò «l’espressione di un attacco di follia privato». Insomma, l’atto d’accusa di Picasso non ebbe gli effetti che il pittore voleva. Come si spiega, allora, che oggi quest’opera sia l’emblema del Golgota moderno, della distruzione dell’uomo nel Novecento? Il quadro, com’è noto, da Parigi viaggiò per anni in varie parti del mondo (a Milano venne esposto nella Sala delle Cariatidi per la mostra di Picasso del 1953), e fece rientro in Spagna soltanto nel 1983, otto anni dopo la caduta del regime franchista, come Picasso aveva disposto. Luigi Bonanate, storico e politologo torinese, ha appena licenziato da Aragno un saggio dove cerca di allargare il tiro sull’unicità del quadro di Picasso nel rivelare l’essenza moderna della guerra.

In La vittoria di Guernica tenta il salto triplo da Gernika all’11 settembre, ovvero, come recita il sottotitolo, «dalla guerra civile spagnola alla guerra civile mondiale». Libro dunque d’attualità, scrive Bonanate. Non soltanto per l’anniversario bellico e artistico, ma perché Guernica diventa lo specchio di tutte le guerre civili che hanno insanguinato il pianeta dopo l’ultimo conflitto mondiale; sessantatré ne sono state contate, dai Balcani al Ruanda, per non dire del terrorismo di oggi. E questo libro di Bonanate è forse l’epilogo del precedente Dipinger guerre uscito nel 2016 sempre da Aragno. Confesso che le generalizzazioni non mi convincono quasi mai. E anche l’estensione prospettica che Bonanate fa di Guernica mi lascia perplesso. Per esempio quando dice che quell’opera dimostra come «arte e democrazia vanno dunque insieme» (non per l’Italia, dove molti dei maggiori artisti del Novecento operarono sotto e talvolta per conto del regime; e nemmeno per l’Urss, dove molti pittori realisti di primordine, oggi riscoperti, raffigurarono il mito sovietico). Diffido di Picasso per la sua furbizia nell’intuire momenti e climi storici; diffido delle sue spiegazioni ex post, perché era molto abile a trovare le ragioni giuste e coerenti per spiegare qualcosa che lui stesso forse non aveva progettato. Inizialmente, infatti, lavorava a un ritratto “mostruoso” di Francisco Franco. Dopo Gernika cambiò idea. Fu per l’eco internazionale suscitato dal massacro? O per opportunismo? Non fu mai un pittore veramente politicizzato, sebbene nel dopoguerra per molti fosse il «comunista Picasso». Nel 1937 le sorti della guerra erano tutt’altro che certe, anzi si avvertiva la debolezza repubblicana. Quella di Picasso fu dunque un’abile virata sul dramma universale della guerra, che lo metteva al riparo da ritorsioni qualora Franco avesse vinto? Poi Picasso confessò di essere «ossessionato dalla guerra»: perché allora non dedicò mai un quadro epocale alla Grande Guerra, che certo lo sfiorò più da vicino? Ma poi, nel 1951, ecco che torna sul tema col Massacro di Corea. Ripeto: opportunismo della fama (già mondiale)?


Picasso non dipinge mai per farsi testimone storico, tutt’al più vuole esserlo solo della storia dell’arte (l’orizzonte nel quale si vedeva proiettato): e così si possono ritrovare in Guernica citazioni da Géricault, Piero della Francesca, Guido Reni, Caravaggio, e qualcosa dell’avanguardia russa e del cinema di Ejzenštejn. Bonanate conduce un discorso appassionato non esente da alcune affermazioni disinvolte, e il libro ha anche un editing non sempre adeguato. Picasso nasce nel 1881 e «scompare a Mougins» nel 1973 scrive Bonanate: mi fa venire in mente il puntiglio di Heidegger quando dice che l’animale decede, mentre l’uomo muore. Picasso non scompare, muore: e questo momento gli metteva ansia. C’è poi un refuso quasi comico a proposito del dipinto Figura di donna ispirata dalla guerra di Spagna, quadretto poco visto, dove Picasso «sfoga ancor più brutalmente la sua rabbia». Lo donò a Dora Maar (quadro crudele e “mostruoso” che fossi stato in lei avrei rifiutato), e forse era negli studi per il ritratto di Franco. Nell’angolo alto a sinistra, Picasso ha scritto in spagnolo: «Ritratto della Marchesa dal culo cristiano che getta (non come traduce Bonanate) una moneta ai soldati mori (non maori, che caso mai sarebbe mauri in quanto provenienti dalla Mauritania) difensori della Vergine». Il riferimento ai mori difensori della Vergine sembra alludere alla questione dei moriscos, i musulmani convertiti forzosamente, e dunque il gioco linguistico di Picasso esprime in effetti «l’odio possibile per la collaborazione tra il franchismo e la Chiesa di quegli anni».

Penso che Guernica parta da un fatto di guerra ma finisca per restituire alla morte la tragicità che, in fondo, la guerra corre il rischio di occultare (la stessa tragicità celebrata dalla corrida). Nella guerra la morte non è fatale, è contemplata come reale possibilità nel momento in cui si va all’attacco o ci si difende. Nel tempo ordinario, invece, la morte è tragica perché fa pensare al male metafisico e all’assurdità di nascere e vivere per dover morire (da qui la ricerca dell’artista di una fama universale). Dire poi che mai prima di Guernica un quadro ha saputo realizzare in contemporanea a un fatto anche il suo atto d’accusa è una forzatura di Bonanate (La zattera della Medusa di Géricault venne dipinta due anni dopo il naufragio e il quadro ebbe un effetto decuplicato sulla scena politica e sociale del suo tempo; e anche oggi non è meno emblematico di Guernica (e infatti, in alto a sinistra, Picasso cita il drappo che vediamo sventolare nel quadro di Géricault). Manca nel libro di Bonanate, infine, un parallelo fra Guernica e Parade, il sipario, ancor più grande nelle dimensioni, che Picasso realizzò nel 1917 durante il soggiorno in Italia; opera enigmatica che cela anche una evocazione degli Inferi (la figura di Arlecchino ne è il testimone), ed è in effetti l’unica opera di Picasso dove si legge in filigrana l’allusione implicita all’inferno della Grande Guerra.

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