martedì 4 agosto 2020
Nuova edizione per la biografia dedicata da John e Alice Garrard al grande scrittore testimone dei due totalitarismi, che riconobbe come speculari
Vasilij Grossman (1905-1964) durante una corrispondenza dal fronte

Vasilij Grossman (1905-1964) durante una corrispondenza dal fronte - WikiCommons

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Cos’altro si può dire di nuovo di Vasilij Grossman, lo straordinario autore di Vita e destino, uno dei più grandi scrittori del Novecento, testimone diretto di due fra i più tragici eventi del secolo scorso, la Seconda guerra mondiale e la Shoah? Eppure, nonostante la pubblicazione delle sue opere in Europa, successiva alla sua morte avvenuta nel 1964, nei meandri della sua vicenda biografica e letteraria si possono ritrovare non solo particolari sconosciuti, ma anche questioni estremamente rilevanti ancor oggi dal punto di vista storico e filosofico. Lo si intuisce leggendo la biografia scritta da John Garrard, professore di Letteratura russa all’università dell’Arizona, e dalla moglie Alice che bene ha fatto l’editrice Marietti a rimandare in libreria col titolo Le ossa di Berdicev (pagine 488, euro 29), proprio a 40 anni dalla prima edizione di Vita e destino a cura di una piccola casa editrice svizzera, L’age d’homme. In Italia l’opera arrivò nel 1984 grazie alla Jaca Book e di recente Adelphi ne ha stampato una nuova traduzione. Il manoscritto di Grossman era stato sequestrato dal Kgb ma lo scrittore aveva fatto in tempo ad affidarne una copia ad alcuni amici: una di queste, grazie all’aiuto del fisico nucleare poi premio Nobel per la Pace Andrej Sacharov che aveva messo a disposizione l’attrezzatura per fare microfilm del suo laboratorio, era giunta in Europa occidentale. Da allora il nome di Grossman, di cui era già uscito in Germania un altro romanzo, Tutto scorre, si è sempre più affermato non solo nei circoli culturali che diffondevano i samizdat, ma in tutto il mondo letterario, come un autore imprescindibile per capire l’immensità della tragedia del secolo del male.

Grossman era nato nel 1905 a Berdicev in Ucraina, da una famiglia di origine ebraica, ma non aveva praticato granché la sua religione. Anzi, per lungo tempo si era posto convintamente al servizio della patria sovietica e, come giornalista, era stato al seguito dell’Armata Rossa per raccontare la guerra, trascorrendo fra il 1941 e il 1945 più di mille giorni al fronte. «Si può dire – scrivono i coniugi Garrard – che Grossman abbia assistito a più azioni militari di qualsiasi altro corrispondente di guerra in qualunque scenario. Fu presente alle battaglie decisive sul fronte orientale». Non solo a Stalingrado, che pure rappresentò la più dura battaglia corpo a corpo che si ricordi, fra l’autunno e l’inverno del 1942, ma anche a Kursk, probabilmente il più grande scontro di mezzi corazzati di tutta la storia militare, nell’estate del 1943, quando la Wehrmacht fallì nel tentativo di accerchiare l’Armata Rossa. Assieme all’esercito sovietico Grossman attraversò poi l’Ucraina, la Polonia e giunse a Berlino nel 1945, camminando anche nello studio di Hitler. Ma il suo arrivo a Berdicev, nel 1944, in cui sperò sino all’ultimo di poter riabbracciare la madre, rappresentò la prima tappa di un ripensamento. Innanzitutto personale, con la riappropriazione della propria identità ebraica attraverso la presa d’atto della Shoah, che in Ucraina e nei territori russi era stata realizzata attraverso fucilazioni di massa a partire dal 1941. Anzi, con tutta probabilità fu la difficoltosa esperienza della Shoah delle pallottole a spingere i nazisti a puntare sui campi di sterminio con le camere a gas. Grossman aveva pochi mesi prima toccato con mano a Kiev – e successivamente lo stesso sarebbe avvenuto a Treblinka – gli orrori commessi dal Terzo Reich, ma subito si rese conto che gli ucraini avevano collaborato nell’opera di sterminio. Nella sola Berdicev trentamila ebrei, vale a dire la metà degli abitanti, erano stati fucilati e gettati nelle fosse comuni dai battaglioni tedeschi e molti di essi erano stati “venduti” dagli stessi ucraini.

Questo aspetto della Shoah, che si era ripetuto un po’ ovunque, sarebbe poi stato negato dalla storiografia ufficiale comunista, che aveva adottato lo slogan “non dividere i morti” su ordine di Stalin. «Il governo sovietico – dicono gli autori della biografia – riscrisse la storia di quella che avrebbe chiamato la Grande Guerra Patriottica per adattarla all’immagine di sé che voleva trasmettere». Una censura della verità che Grossman non fu disposto ad accettare e che l’avrebbe condotto a disgrazia presso il regime. La morte della madre dello scrittore, avvenuta nel secondo rastrellamento del ghetto di Berdicev, il 15 settembre del 1941, è da lui rivissuta in Vita e destino attraverso il protagonista del romanzo, lo scienziato Viktor Strum, che riceve una lettera di undici pagine in cui la madre racconta al figlio la deportazione. Con la moglie del portinaio dell’edificio in cui abita che esclama: «Grazie a Dio è la fine per i giudei», e le due vicine di casa che litigano per accaparrarsi i suoi mobili. «Come fu triste il viaggio, figlio mio, nel ghetto medievale. Camminavo per la città nella quale avevo lavorato per vent’anni (…). In questi giorni tremendi il mio cuore si è riempito di tenerezza materna per il popolo ebraico». In due anniversari, il 15 settembre del 1950 e del 1961, Grossman scrisse due lettere alla madre altrettanto strazianti, come se essa fosse ancora in vita. «Non conoscevo – si legge nella prima – la terribile morte che avevi patito. Ne venni a conoscenza solo dopo essere arrivato a Berdicev e dopo aver chiesto a quelli che sapevano del massacro avvenuto il 15 settembre 1941. Ho provato a immaginare il tuo assassinio dozzine e forse centinaia di volte e il modo in cui sei andata incontro alla tua fine. Ho provato a immaginare l’uomo che ti ha uccisa, È stata l’ultima persona che ti ha vista viva. So che hai pensato a me tutto il tempo. E il mio dolore è tanto grande oggi quanto il giorno in cui quel vicino di via Uciliscnaja mi disse che eri morta e che non c’era più nessuna speranza di trovarti viva».

E nella seconda, a vent’anni esatti dalla sua morte: «Lavorando a Vita e destino negli ultimi dieci anni ho pensato a te costantemente. Il mio romanzo è dedicato al mio amore e alla mia devozione per il popolo. Questa è la ragione per cui è dedicato a te. Per me tu sei l’umanità e il tuo terribile destino è il destino dell’umanità in questi tempi disumani». Nell’opera di Grossman si intravvede una sorta dei teologia della bontà, la ricerca di ciò che è buono e giusto nell’essere umano oltre ogni possibile orrore; lo si può constatare nel suo racconto del viaggio in Armenia, quando toccò con mano le conseguenze del genocidio turco e simpatizzò con i discendenti di coloro che erano stati massacrati (chi fosse interessato ad approfondire, può leggere il libro Il bene sia con voi!, Adelphi 2011). Per questo la sua figura di testimone dei due totalitarismi del ’900, che riconobbe come speculari, è così importante da rivisitare oggi, come lui stesso ebbe a scrivere: «Nell’epoca cruda e terribile nella quale la nostra generazione è stata condannata a vivere su questa Terra, non dobbiamo mai accettare di venire a patti con il male. Non dobbiamo mai diventare indifferenti nei confronti degli altri e indulgenti nei confronti di noi stessi».

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