mercoledì 11 luglio 2018
Fu l’isola danese, nel 1985, il primo territorio a lasciare l’Unione un referendum. Il germanista Berni: «Però, a differenza dei britannici, i groenlandesi non hanno mai voluto stare in Europa»
Narsaq, piccolo borgo nel sud della Groenlandia a otto ore di nave da Copenaghen (Ap/Scanpix)

Narsaq, piccolo borgo nel sud della Groenlandia a otto ore di nave da Copenaghen (Ap/Scanpix)

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Kalaallit nunaat, ossia terra degli uomini, è il modo groenlandese di chiamare la Groenlandia, isola più grande al mondo, ma soprattutto primo esempio di territorio uscito dall’Unione Europea, all’epoca Comunità economica europea, in seguito a un referendum del febbraio del 1982 entrato in vigore nel gennaio 1985, in seguito ad alcuni negoziati con Bruxelles. Il precedente di Brexit (se così si può definire), in realtà, inizia prima. Nel 1953 la Groenlandia diventa regione federale danese e in quanto parte della Danimarca, nel 1973, entra nella Cee, seppur la maggior parte dei groenlandesi si dichiari contraria in sede di referendum. L’ottenimento dell’autonomia nel 1979 mette il nuovo governo nelle condizioni di gettare le basi per costruire il percorso di autonomia che porta al referendum degli anni Ottanta. Percorso che, nel 2009, si rafforza, pur mantenendo la Groenlandia, così come le Fær Øer, nel Regno di Danimarca. La complessità, politica ed economica, della Groenlandia, è amplificata dalla distanza culturale, ragion per cui è importante analizzare il precedente con l’Ue mantenendo il più possibile un contesto storico. A distanza di oltre 30 anni dal referendum del 1982, si può dire che la Groenlandia abbia beneficiato della decisione presa? Bruno Berni, che dal 1993 dirige la biblioteca dell’Istituto italiano di Studi germanici a Roma, prova a evitare paragoni non facili: «Il Paese è politicamente da secoli sotto la sovranità danese ed è stato a lungo una colonia (ha smesso di esserlo nel 1953), ma geograficamente è a tutti gli effetti parte dell’America settentrionale e culturalmente non è nessuna delle due cose: gli inuit di Groenlandia sono, per lingua e cultura, affini a quelli del Canada o dell’Alaska, e tali vorrebbero rimanere. Meno di 60.000 abitanti – ai quali si aggiungono circa 15.000 persone etnicamente inuit che vivono in Danimarca – su un territorio grande sette volte l’Italia ma coperto di ghiacci perenni per l’80%. Credo che paragonare la Groenlandia alla Gran Bretagna sia un errore. È vero che la Groenlandia è entrata nella Comunità europea insieme alla Danimarca nel 1973, ma è anche vero che, proprio per la grande anomalia della sua situazione, non ha mai desiderato farne parte e fin da subito ha chiesto di rimanerne fuori. Anche se i groenlandesi hanno cittadinanza danese, non sono danesi e non sono europei».

L’economia e la qualità della vita dei groenlandesi, società basata principalmente sulla pesca, ha giovato di questa indipendenza o avrebbe tratto maggiori benefici dall’appartenenza alla Cee?

«Uno dei motivi della scelta di rimanere fuori dalla Comunità fu a suo tempo, credo, l’impossibilità di accettare le quote per la pesca. La Groenlandia vive prevalentemente di pesca e già le operazioni di “urbanizzazione” forzata operate dalla Danimarca – pur parzialmente giustificate dall’intento di costruire un sistema sociale e sanitario funzionale – avevano stravolto l’economia locale che rendeva sostenibile la sopravvivenza di villaggi di 30-50 persone. La conservazione di accordi doganali con la Comunità è stata positiva, insostenibile sarebbe stata invece l’accettazione di regole come quelle europee».

La Groenlandia, per proprie caratteristiche sociali e geografiche, a suo tempo ha guardato all’Europa come a un freno per la propria identità e per le risorse, ma il tempo ha cambiato le prospettive. Il trattato del 1985 è stato rafforzato dal referendum del 2008, ma la diminuzione di sussidi da parte della Danimarca ha avuto conseguenze per il Pil e oggi lo scenario economico e politico sta ulteriormente mutando.

«Credo che l’ingresso della Danimarca nella Comunità abbia rappresentato più che altro un motivo in più per dare un’accelerata alle spinte autonomiste. Fu allora che la Groenlandia ebbe un suo parlamento – nel 1979, pur conservando i due rappresentanti nel parlamento danese – e da allora il processo di autonomia ha fatto altri passi, come quello del 2008, dopo il quale la Danimarca conserva solo la responsabilità per gli affari esteri e la difesa. Il Paese sta andando verso l’indipendenza e la maggioranza degli abitanti ha espresso la sua approvazione. Come poi questa indipendenza sia possibile quando il sussidio danese rappresenta ancora un terzo del Pil groenlandese è cosa diversa. Si cerca di bilanciare una diminuzione del sussidio con un aumento dello sfruttamento autonomo delle risorse naturali, ma credo sia necessario un lungo periodo, ed è su questo bilanciamento che si svolge oggi il dibattito politico interno e la “trattativa” con il governo centrale danese. Uno dei punti è che sia il governo groenlandese a scegliere su quali aree assumere il controllo».

A fronte dei referendum, ma anche di risorse naturali che stanno mutando per via dei cambiamenti climatici, come procede l’economia attuale della Groenlandia?

«L’economia della Groenlandia è oggi un esperimento in cui il governo del paese assume volta per volta, lentamente, la gestione di aree di responsabilità precedentemente danesi; aree dalle quali i costi di gestione a carico del governo centrale danese vengono spostati verso una gestione pienamente interna. La pesca è ancora la principale attività, il turismo una possibilità. Il punto vero è forse lo sfruttamento delle risorse naturali: sono state aperte o riaperte attività di estrazione e sulla gestione di quelle risorse si svolgono le trattative più importanti. Se la popolazione ha espresso la volontà di raggiungere l’indipendenza, è anche vero che un’inchiesta successiva al referendum ha dimostrato che pochissimi accetterebbero l’indipendenza totale se significasse un radicale peggioramento della qualità della vita».

Volendo fare un parallelo con Brexit, l’uscita dalla Cee della Groenlandia si può mettere sullo stesso piano?

«Un conto è la situazione di un Paese sovrano che decide di uscire dalla Comunità, cosa del tutto diversa è la situazione di una ex colonia che nella Comunità non ha mai voluto starci. La Groenlandia è talmente lontana – culturalmente e geograficamente – dall’Europa che la lingua ufficiale è il groenlandese, nonostante la quasi totalità della popolazione parli anche danese, e durante l’ultima guerra mondiale, per esempio, quando la Danimarca era occupata, la Groenlandia rimase libera e difesa dagli americani. Subito dopo la guerra ci fu persino un tentativo Usa per “acquistarla” (come era accaduto un secolo prima con l’Alaska acquistata dalla Russia), ma fu rifiutato dai danesi. Insomma, nonostante la responsabilità politica danese, il Paese è di fatto un’entità nordamericana. È un fatto che il Paese è più affine al Nunavut – lo “Stato” inuit del Canada che nel 1999 fu separato dai Territori del Nord Ovest – che all’Europa. E che il Nunavut per la Groenlandia è un dirimpettaio molto vicino. In certe zone solo un braccio di mare».

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