domenica 17 gennaio 2016
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Vive e sgomita a Sacrofano, un paese a una collina di distanza da Formello, sede del quartier generale della Lazio, la squadra che l’ha fatto conoscere al grande calcio. Da giocatore, il suo compito consisteva nell’impedire agli altri di giocare bene. Professione difensore, difensore vecchia scuola: poca grazia e tanta sostanza. Angelo Adamo Gregucci non era un campione, ma raccoglieva la stima di tanti. Anche del commissario tecnico della Nazionale Azeglio Vicini, che nell’autunno del 1990 lo convocò per un doppio impegno di qualificazione agli Europei. Gregucci piaceva perché era un giocatore utilissimo. In campo e nello spogliatoio. Da allenatore, la sua attitudine a fare gruppo è diventata priorità, il primo passo per raggiungere traguardi importanti. Alla guida dell’Alessandria, città che lo aveva accolto a 16 anni per insegnargli il calcio vero, ha fatto ballare una città intera dopo aver confezionato lo sgambetto al Genoa negli ottavi di finale della Coppa Italia. Il suo traguardo? Riportare i Grigi in Serie B. E domani se i suoi ragazzi eliminano lo Spezia scatta una storica semifinale con il Milan che fu di Gianni Rivera, l’Abatino nato e cresciuto nell’Alessandria che lo lanciò in Serie A.«Conosco il calcio, ora siamo nel mirino di tutti», lei ha detto dopo aver battuto il Genoa. Squadra che vince fa paura?«Voglio essere chiaro: la Coppa Italia per noi era e continua a essere soprattutto una vetrina. Perché in verità noi proponiamo sempre lo stesso spettacolo. Certo, la vittoria con il Genoa ha modificato almeno in parte le logiche del percorso. Tre mesi fa eravamo una squadra di bassa classifica della Lega Pro e le motivazioni di chi ci affrontava erano in linea con le nostre prestazioni. Col passare delle settimane, siamo cambiati noi e sono cambiate le attese dei nostri avversari, che ora fanno il possibile per soffiarci la ribalta. Dobbiamo rimanere con i piedi per terra e tenere alta la concentrazione sul campionato. Il nostro futuro passa da lì, non dalla Coppa Italia».Con Gregucci al comando, i Grigi hanno preso il volo. Quali meriti si riconosce?«Ho cercato di esaltare le qualità dei ra- gazzi che avevo a disposizione, dicendo loro che dovevamo mettere la dedizione al lavoro e lo spirito di appartenenza davanti a tutto. Gli ho ricordato che il calcio è soprattutto un gioco, un modo per divertirsi e per divertire. La partite non si vincono mai grazie al modulo, ma all’impegno di tutti a remare nella stessa direzione».Il suo motto è: «Voglio uomini veri, prima che calciatori»...«Per esperienza, posso dire che le grandi squadre non si costruiscono soltanto comprando calciatori ricchi di talento. Servono giocatori che sappiano assumersi le responsabilità, che vanno affrontate e superate con maturità e intelligenza. Ne sono certo: oggi gli stupidi non possono fare carriera».Ha iniziato ad allenare nel 1999, alla Reggiana. In Serie A con Lecce e Atalanta non è andata benissimo. Vorrebbe riprovarci con la Lazio, stavolta in panchina ovviamente?«Io vorrei guidare una squadra in Champions League, questo è il mio obiettivo. Come si dice, bisogna mirare alle stelle per colpire la luna. È vero, in Serie A non è andata benissimo, ma è altrettanto vero che la mia esperienza è durata complessivamente un mese o poco più. In Italia va così, due partite sbagliate e sei fuori. E se poi la stampa spinge contro, è solo questione di tempo, l’esonero è dietro l’angolo. La panchina della Lazio per me non è un’ossessione e poi oggi è salda nelle mani del mio amico Stefano Pioli. Non posso nascondere che sia la società che porto nel cuore, lì ho trascorso una parte importante della mia carriera...».Trent’anni fa la “banda dei -9” si salvò dalla clamorosa retrocessione in serie C. Quella sua Lazio è entrata nella storia e nel cuore dei tifosi biancocelesti.«Non era una grande squadra sotto il profilo tecnico, ma era formata da giocatori di grande spessore umano. Era il 1986, la società venne retrocessa in Serie C per lo scandalo del Totonero-bis e poi ripescata in Serie B con nove punti di penalizzazione. Prima ancora di sapere la sentenza definitiva, il tecnico Eugenio Fascetti radunò la squadra nel sottoscala di un albergo e ci chiese chi volesse andarsene: nessuno fece un passo indietro. Io ero un ragazzino, non mi sarei mosso per nulla al mondo, ma c’erano giocatori che potevano ambire a soluzioni migliori. Sul campo, la dimostrazione che i conti tornavano. Ci salvammo agli spareggi al San Paolo e l’anno successivo arrivò la promozione in Serie A».Alla Reggiana ha conosciuto da vicino i metodi di Carlo Ancelotti, allora debuttante in panchina. Per molti addetti ai lavori, è tra i migliori tecnici in circolazione, concorda?«Carletto non è tra i migliori, è il migliore, senza alcun dubbio. Ne sono convinto da quando l’ho conosciuto a Reggio Emilia. La ragione è presto detta: Ancelotti è un campione del mondo nei rapporti umani. Con lui, si va sempre sul sicuro. Come tecnico, poi, è un fuoriclasse. Farà benissimo anche al Bayern Monaco».Da un collega all’altro. È stato il vice di Roberto Mancini alla Fiorentina e al Manchester City.«Roberto ha una visione del pallone che lo rende unico, perché vede delle cose che gli altri fanno fatica a capire. È un numero 10 anche da allenatore. Potrebbe fare giocare insieme e bene undici Messi. Va oltre ogni logica. Rende migliore tutto quello che tocca. Anche l’Inter, con lui sta diventando una squadra in grado di lottare per lo scudetto. Se mi chiamasse all’Inter? Lui sa che quando ha bisogno può contare su di me...».In Inghilterra lei è tornato nella stagione 2014-15 per lavorare nello staff del Leyton Orient, club di terza serie protagonista di un reality trasmesso dalla rete albanese Agon Channel.«Mi chiamò Simona Ventura, aveva bisogno di un aiuto per la sua trasmissione e io sono stato felice di fare la mia parte, ma non ho mai interferito con il lavoro del tecnico Liverani. Se lo rifarei? Vado dove rotola la palla. Se sento che l’esperienza che mi propongono mi può dare qualcosa, non ho alcun problema a garantire il mio contributo».
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