Graham Greene ha avuto moltissimi riconoscimenti ufficiali, ma il Nobel gli è sempre sfuggito: per ragioni 'politiche', non letterarie. Non ne aveva comunque bisogno, data la sua immensa popolarità, a cui non poco contribuì il grande schermo, che trasformò in film famosi e 'infedeli' un numero altissimo di suoi romanzi. Ma alla sua fama ancor più contribuirono i cosiddetti romanzi 'cattolici' (Il nocciolo della questione soprattutto); o meglio, gli appassionati consensi e i critici dissensi che favorirono un’enorme attenzione mediatica intorno ad essi (con il corollario di una non sempre convincente attenzione critica). Greene ha sempre rifiutato di considerarsi uno scrittore 'cattolico'. Piuttosto, il suo intento è stato recuperare una dimensione letteraria che, dopo Henry James, come scrisse in un illuminante saggio, il romanzo inglese non aveva più saputo ritrovare: una dimensione fortemente morale e religiosa che potesse dare senso e spessore a eventi e personaggi. Vi è in Greene la consapevo-lezza, che spesso lo ha fatto paragonare a Bernanos, dell’ineluttabilità della presenza di Dio nell’uomo. Sia che questo lo accolga o lo ripudi. Basilare è per lui la convinzione dell’infinità della misericordia divina, che nessuno, neppure la Chiesa, può conoscere. Essa – dice padre Rank alla fine de Il nocciolo della questione– conosce tutte le regole, ma non ciò che avviene nel cuore dell’uomo. Solo Dio può leggervi, e perdonare: ed è questo il mistero che per Greene può salvarci dalla disperazione. Perché l’uomo è peccatore: i suoi romanzi ci presentano una galleria di personaggi capaci soprattutto di peccare, che spesso vivono nella lacerante consapevolezza della colpa, ma che non possono fare a meno di errare, perché fragile e fallibile è la natura umana. I personaggi di Greene rivelano una straordinaria efficacia proprio nella loro debolezza, nel loro essere incerti, a volte ambigui, animati da sentimenti e passioni contrastanti nell’affrontare le scelte. Spesso sono gli aspetti negativi a prevalere, la codardia, l’indifferenza, l’egoismo; ma in ultimo essi sanno pagare con il sacrificio il rispetto di ciò che ai loro occhi rappresenta quel poco che rimane della loro dignità umana. Nelle ultime opere si è ravvisata una certa ripetitività e di frequente la critica ha suggerito che quella 'Greeneland', quel territorio e quel clima letterario che costituiscono un affascinante punto di riferimento per il lettore, abbia finito con l’uniformare un po’ troppo paesaggi e personaggi degli ultimi lavori. Ma anch’essi, al loro apparire, non mancarono di suscitare un’amplissima eco, anche per il rilievo che Greene continuava ad avere nel panorama internazionale per le sue battaglie civili: a favore dei dissidenti dell’Urss, contro le manovre della Cia in America Latina, contro le complicità tra politici e malavita a Nizza. Con la sua scomparsa il 'personaggio Greene' venne meno. Ma è rimasta l’opera, come la critica più attenta e i comuni lettori hanno sempre riconosciuto, di uno dei più grandi narratori della letteratura inglese. Vale comunque la pena rinfrescarne la memoria, approfittando di una significativa ricorrenza. Sessant’anni fa, nel 1955, veniva pubblicato uno dei più importanti romanzi di Greene, L’americano tranquillo. Se John Fitzgerald Kennedy, invece di tenere sul comodino Dalla Russia con amore di Fleming, avesse letto quel libro, forse non avrebbe avallato gli inizi dell’avventura in Vietnam. Non lo lesse. Anche perché i media Usa immediatamente lo attaccarono presentandolo come un’opera che denigrava gli Stati Uniti, un libello 'comunista' vergognosamente anti-americano. E infatti, quando Hollywood ne trasse un film, ne modificò completamente il senso. La bomba che fa strage di innocenti, in un attentato organizzato con la complicità della Cia, nel film diventava invece la bomba fatta esplodere dai feroci e cinici partigiani comunisti. Greene divenne «persona non grata». E raccontò poi, con divertita soddisfazione, che, grazie alla sua amicizia con il presidente di Panama Torrijos, nel 1977 era potuto andare a Washington con passaporto diplomatico panamense. Ma torniamo all’Americano tranquillo. Il romanzo si svolge in Indocina (una colonia francese che solo più tardi imparammo a conoscere con il suo nome: Vietnam) prima della sconfitta dei francesi nella battaglia di Dien Bien Phu, che precedette di pochi mesi l’uscita del romanzo e fu la proclamazione della fine di un’epoca. La storia è raccontata in prima persona da Fowler, inviato a Saigon di un giornale inglese, e verte sulla vicenda del «tranquillo americano » Pyle, agente della Cia il quale, per impedire che il Paese cada in mano ai comunisti, pensa sia necessario appoggiare una 'terza forza' anch’essa antifrancese ma non comunista: il generale Thé, una specie di «signore della guerra» di poca o nulla affidabilità rispetto al progetto. Pyle è innocente, ma questo rappresenta un pericolo tremendo poiché l’innocenza non è altro che una forma di follia. L’innocenza di Pyle nasce dalla sua fede assoluta nei valori in cui crede e nelle idee di cui si fa portavoce. Ma cosa comporta l’appoggio al generale Thé che da quelle idee discende, lo testimoniano i morti e i mutilati di Place Garnier, dove la terza forza organizza con il plastico fornito da Pyle un attentato che semina morti e feriti tra i passanti. La complessità della figura di Fowler conferisce al romanzo spessore morale e interesse narrativo. A più riprese Fowler aveva dichiarato che il suo credo era non lasciarsi coinvolgere. Lui era un reporter, diceva, uno che riferiva i fatti, che non aveva opinioni. Ma all’emozione dopo l’attentato si accompagna la consapevolezza della verità di quanto gli aveva detto il partigiano comunista Heng: nella vita, prima o poi, bisogna prendere posizione se vogliamo continuare a chiamarci esseri umani. È questo percorso morale che porta Fowler a 'tradire' Pyle, a stare cioè – come Greene – dalla parte delle vittime.
(Questo scritto è uno stralcio di un testo che uscirà a fine settembre sulla rivista culturale "Lo straniero", diretta da Goffredo Fofi)