giovedì 17 settembre 2015
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I produttori cinematografici di ogni Paese, sin dai primi anni del Novecento, cercano subito di portare nelle sale più pubblico possibile, soprattutto quello acculturato, renitente al nuovo medium per affezione al teatro, spingendo sull’orgoglio nazionale attraverso riduzioni dalle singole letterature: Dante, Shakespeare, Cervantes, Dickens, Goethe, Puškin, Dostoevskij, Sue, Maupassant, Manzoni, Scott, London... Analogamente, anche i testi vetero e neotestamentari, trasversali nelle diverse cinematografie, trovano una larga accoglienza, accanto, naturalmente, alle vite dei santi “nazionali”. Già nell’anno 1900 – cinque anni dopo l’invenzione del cinematografo, ad opera dei fratelli Lumière – Méliès firma un’avvincente versione di Giovanna d’Arco (ricca di esterni e comparse in costume: ma Giovanna indossa scarpe con tacchi); nel 1902 Zecca e Nonguet realizzano la prima parte di una drammatica e fortunata Passion. Nel 1904, ancora Méliès, torna sul tema con l’ironico Un miracle sous l’Inquisition (“Un miracolo sotto l’Inquisizione”); nello stesso anno Nonguet, da solo, porta a termine la seconda parte della sua Passion. Calmettes affronta il Nuovo Testamento con Il bacio di Giuda, del 1909. Episodi dell’Antico Testamento sono rivisitati in I Maccabei (1911) di Enrico Guazzoni, ben accolto dalla critica anche straniera.Nello stesso anno Guazzoni dirige, per la Cines di Roma, Il poverello di Assisi, il primo film dedicato a san Francesco, con protagonista il celebre attore Emilio Ghione («Mi tonsurai da frate»). Il film «in cui tutto è magnifico, tutto d’una freschezza di una umanità davvero insolite» (“Cinema”, 10 gennaio 1912) ottiene la seconda medaglia d’oro all’Esposizione Universale di Torino dello stesso anno. Del 1911 vanno almeno menzionati due film diretti da Enrique Santos: San Sebastiano (per la Milano Film) e Santa Cecilia (per la Cines di Roma). Nel 1913 Das Mirakel (di Cherry Kearton e Max Reinhardt), leggenda- parabola di argomento religioso, raccoglie un successo strepitoso in tutta Europa. Vi si narra di una giovane suora-portinaia che, conosciuto un aitante cavaliere di passaggio e innamoratasene perdutamente, lascia abito e convento, per seguirlo in giro per il mondo, ed essere poi abbandonata. Una statua della Vergine, presente nell’atrio del convento, si animerà e prenderà le sembianze e il posto della suora, sostituendola nel lavoro, sino a che questa, figliola prodiga, tornerà al convento, rioccupando il suo posto: nessuno saprà del miracolo, se non lei e lo spettatore.Quando Guido Gozzano, «attratto» del cinema, si accinge a scrivere una «orditura fotogrammatica », ossia una sceneggiatura, dal titolo San Francesco di Assisi, nel 1915, confluiscono nel progetto almeno tre motivazioni. La disponibilità, per l’appunto, delle case di produzione nel dedicarsi a storie di fede; il suo antico interesse per il santo di Assisi (sicuramente da quando pubblica l’articolo Il misticismo moderno e la rievocazione del Serafico, 1905, per la “Gazzetta del popolo della domenica”); la sua competenza cinematografica risalente almeno al 1911, anno in cui collabora con il documentarista R. Omegna (suo cugino) per La vita delle farfalle; nello stesso anno è autore dello scenario e della regia (con la supervisione di Omegna) di La farfalla Macaone, corto in cui vi sono «colori a mano» e «didascalie in francese» (Roberto Beretta, “Avvenire”, 17 febbraio 2002). Per la stesura della sceneggiatura Gozzano prende in considerazione, innanzitutto, i Fioretti e il Cantico delle creature: «Ò letto tante e tante volte il Cantico del Sole che lo so ormai a memoria e l’armonioso inno dell’Assisiano mi perseguitala mente, come perseguita l’orecchio il ricordo d’una bella sinfonia».Completa la sua ricerca sul santo con una ricca scelta bibliografica di saggi: da La storia di san Francesco d’Assisi (1887) di Luigi Palomes (minore conventuale e docente), alla versione francese di un testo tedesco di Henry Thode, Saint François d’Assise et les origines de l’art de la Renaissance en Italie (1909); dalla nota biografia sul santo del 1894 di Paul Sabatier ad un’altra più documentata, Saint François d’Assise. Sa vie et son ouvre (1910), traduzione dall’originale danese di Johannes Jørgensen. Da ogni testo, nota acutamente Mariarosa Masoero, Gozzano assume informazioni per un lavoro «serio», che usa filologicamente creando così una vita filmica del santo attendibile anche per gli esperti. Non per niente la sceneggiatura è «completata con l’assistenza e i consigli del dotto e “prudente” francescano Corrado Giulio Aleyson» (Masoero) e infine sottoposta all’approvazione dell’ordine. La struttura del testo, suddiviso in cinque parti come si usava allora per un lungometraggio, segue il percorso biografico: la nascita del futuro aanto nella stalla adiacente al palazzo di Bernardone; le ambizioni di gioventù; la vocazione; i miracoli; l’incontro con Chiara; il viaggio in Terrasanta; il ritorno ad Assisi; le stimmate sulla Verna; la morte.Il San Francesco mostra una maturità drammaturgica e filmica che in quegli anni in Europa solo Giovanni Pastrone poteva esibire, e negli Usa David W. Griffith. Lo sceneggiatore Gozzano alterna interni ed esterni con grande fluidità narrativa nei tempi. Gli interni sono ricostruiti con estrema attenzione: dai magazzini di Bernardone, con la ricca varietà delle stoffe, all’interno della «taverna medievale. Gaio decamerone non sguaiato come pensa la tradizione popolare, ma composto, elegante, ordinato come nelle pagine dei novellieri del trecento». Gli esterni, scelti con cura, sono spesso legati a effetti, per tradurre al meglio i segni: «Scena – Paesaggio nevoso o brullo, con fitta siepe di grosse spine in primo piano. Francesco prega. Gli compare e accanto (per dissolvenza) il demonio, mettendogli innanzi uno specchio dove sorride una donna procace». Perizia filologica anche per la scenografia storica e militare: «Scena – Campo crociato. Orizzonte limitato dall’alto muraglione sinuoso, smerlato, turrito della città inespugnabile. Tende caratteristiche dei Crociati. Salmerie; mangani, arieti, archibalestre, fuoco greco: tutto l’apparecchio guerresco del tempo».Dal punto di vista stilistico, dunque, il poeta conferisce una forma letteraria alla sua «orditura fotogrammatica » riprendendo, ad esempio, sintagmi già presenti nella sua poesia («strada alpestre»; «amico antico») o dalle lettere («gaia brigata»). Sul versante della scrittura cinematografica, egli è forse il primo letterato, di un certo peso, in grado di inserire il linguaggio cinematografico all’interno di un copione sì da renderlo letterario e filmico al contempo. Oltre a soluzioni tecno-linguistiche esplicite – come «primi piani», «effetto di imbibizione », «fuori campo», «dissolvenza incrociata », «graffiature di spilli» – vi sono altri codici impliciti, quali il “primissimo piano” («All’apertura del Missale saranno alternate le figure di Francesco e dei due compagni molto in primo piano»); il “campo lunghissimo” («Quadro di solo cielo»); il desiderio di tradurre un’immagine nella “carrellata” e con il “grand’angolo” («Prospettiva di lungo granai in fiamme»); infine la “zoomata” («Il disco dell’ostia si fa sfavillante sino ad occupare tutto il primo piano come un sole dove si disegna la sigla sacra»).La sceneggiatura, terminata entro l’estate del 1915, doveva andare in lavorazione nella primavera del 1916, a cura della casa di produzione Gladiator Film di Torino di Ugo De Simone & C. Manifattura Cinematografica, e prevedeva quindici giorni di riprese. Ma il film non si realizzerà per vari motivi, incluso il suo tema ormai lontano, per le case di produzione, dall’euforia bellica del momento. Gozzano, del resto, se lo sentiva. Pochi giorni prima di morire (9 agosto 1916), così si confessava, per lettera, alla madre: «Vedrai che la mia cinematografia resterà inedita». Il San Francesco rappresentò per il poeta una segreta conversione e, forse, il suo biglietto per il gran viaggio.
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