venerdì 24 maggio 2019
A Venezia una mostra sul pittore armeno che patì i lutti del genocidio e fu spinto a emigrare in America: sul confine di astratto e figurativo, senza omologarsi al gusto occidentale
Arshile Gorky, “Ritratto di Vartoosh” (1933, particolare)

Arshile Gorky, “Ritratto di Vartoosh” (1933, particolare)

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Ricordo una straordinaria mostra di disegni di Arshile Gorky, alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia; la ricordo ancora, sebbene siano passati molti anni, era il 1992, per l’impressionante bellezza tragica di quei segni, e per una telefonata che ricevetti da Herman Vahramian, artista e intellettuale tra i più intelligenti fra quelli della diaspora armena, che con voce rotta dall’emozione mi parlava di Gorky, su cui avevo appena scritto un articolo dove cercavo, senza neanche sfiorarlo, di esprimere il mistero malinconico che mi suscitavano quei fogli.

È difficile capire che cosa significava essere armeno al tempo di Gorky, mentre era cominciato il genocidio voluto dal potere turco ottomano; ed è difficile capire che cosa significasse per un armeno di Teheran come Herman, costretto a espatriare fuori dall’Iran dopo la rivoluzione khomeinista. Conoscevo Herman da qualche anno, ma quella telefonata mi rivelò che cosa sia il dolore di chi è costretto in esilio, mi sembrava di vedere le sue lacrime colare nello stampo della sua voce, come oro rosso, oro-rubino. E oggi penso a quel bambino nato nel 1904 in un villaggio vicino al lago Van nella Turchia ottomana di quel tempo, che allo scoppio della Grande Guerra e con la persecuzione contro gli armeni che si dispiega in tutta la sua brutale volontà, fugge con la sorella e la madre a Erevan, provincia armena dell’impero russo.

Come scrive la nipote di Gorky, Saskia Spender, nel catalogo della mostra che si tiene da qui alla fine dell’estate a Ca’ Pesaro, il padre e il fratello maggiore erano andati in America qualche anno prima con la promessa di riunire lì la famiglia ma poi non l’avevano fatto. La madre di Gorky aveva più volte supplicato il marito di darle aiuto, ma dall’America non venne nulla; quattro anni dopo, nel 1919, la madre morì di stenti tra le braccia del figlio quindicenne. Per Vostanik Manoug Adoian – questo il nome di nascita di Gorky – e la sorella non restava che tentare di arrivare in America e ricongiungersi col padre e l’altro fratello.

Anni di privazioni e prove di carattere per rivelare al mondo (e a se stesso) il proprio talento d’artista. E come accade a chi ha sentito nella carne il morso di un destino avverso, la volontà si rafforza, l’ostinazione a essere ciò che si vuole (o si deve) essere aumenta, la tenacia con cui ci si cala nella parte non accetta rifiuti, pur di emergere da quella notte cui sembrava condannato. Così lo vedeva Willem de Kooning, lavorava sempre disse, “giorno e notte”, era magro scheletrico e povero, ma il suo fascino illuminava lo studio in Union Square dove dipingeva, spoglio di quadri alle pareti, le assi del pavimento sbiancate, ma accanto la stanza-deposito colma di quadri che realizzava incessantemente.

L’arte – commenta la nipote – veniva prima del mangiare e del bere, ma quando si lasciava andare al vino la sua spavalderia e la sua parlata surreale dilagavano senza freni. Il pittore Stuart Davies scrisse che quando «esagerava coi vinacci emetici di quell’epoca, attaccava con un numero basato sui canti e sulle danze popolari della sua terra natìa». La sua voce sovrastava ogni possibile conversazione nella stanza e i presenti lo giudicavano male, sensibili alla moda del jazz non riuscivano proprio a digerire quelle «sceneggiate esotiche».

Essere in esilio: si può capire questo grido-omaggio alla madre patria, che in Gorky corrispondeva certo al lamento per la perdita della sua madre carnale; e il consolarsi con la propria cultura e tradizione di canti e costumi, fino a creare imbarazzo, come un narciso molesto. Herman, più introverso, cercò di sublimare la ferita teorizzando una nuova dimensione per chi è respinto e separato dalla propria storia e cultura: la «diaspora della mente». E forse anche quella di Gorky era una diaspora della mente, nella quale si presentavano mille fantasmi che sulla tela, come la bava della lumaca, depositavano tracce del loro passaggio, ed erano graffiti come lamenti di gente perduta che rifiuta il suo destino.

Breton, che a proposito dei disegni di Gorky aveva parlato di crittogrammi come forma di un surrealismo americano, probabilmente aveva capito ben poco del fondo d’angoscia da cui nascono; qualcuno si chiede ancora, scrive Saskia Spender, se quella di Gorky sia una forma di arte americana. E per quanto sia stato avvicinato all’Action painting, all’espressionismo-astratto, oggi, vedendo questa mostra a Ca’ Pesaro, ho seri dubbi che Gorky sia un pittore americano: è un esule che dipinge in America e, per poter comunicare, adotta un linguaggio che risente di ciò che il proprio tempo, nel mondo occidentale, offre; è picassiano, cubista, metafisico, antico, medioevale, realista, astratto (come l’immigrato, si alfabetizza); e ogni volta, alla fine, non è niente di tutto questo: è Gorky, uno che alla propria identità teneva come alla propria madre e non voleva cedere all’assimilazione imposta per integrarsi.

Anche questo l’ho capito parlando per molti anni con Herman Vahramian, che all’omologazione occidentale si è sempre fieramente opposto. E basta guardare l’Autoritratto di Gorky del 1937 per averne conferma. Dieci anni dopo la morte del pittore armeno, Marco Valsecchi nel 1958 scrisse sul “Giorno” il resoconto di una mostra a Milano che riuniva ottantuno opere di diciassette artisti degli Stati Uniti e il titolo diceva: “La pittura americana ha ritrovato l’allegria”. Sarà anche per questo che non riesco a vedere Gorky come un pittore americano? La sua pittura è bella proprio perché l’allegria che si percepisce è quella del naufrago, e l’eco ungarettiana non vi colga per caso, perché il celebre libro poetico è intriso dei dolori e dei rigori della Grande Guerra che costò a Gorky l’esilio.

È questa la sostanza adrenalinica di tanti graffiti di Gorky, per esempio Studio per agonia, del 1946, che sembra interpretare l’incubo dei rifugi durante la guerra, le trincee impastate con sangue e vomito, da cui emerge la macelleria umana (mi ricordano i disegni di Moore nei sotterranei londinesi, artista che torna anche in un inchiostro del 1941, ma è evidente che l’occhio di Gorky sullo scultore inglese si fissa già da prima). Arrivato in America via Costantinopoli, dopo la fuga da Erevan, Gorky si recò a Watertown, in Massachusetts, dove vivevano il padre e il fratello, entrambi operai in fabbrica. Anche Gorky venne assunto, ma fu licenziato perché, come ricorda la nipote, aveva eseguito un disegno su un muro della fabbrica. Rimproveri in famiglia. Poi aprendo un cassetto Arshile trovò la foto di lui con la madre nel 1910: l’aveva inviata lei al padre da Van per pregarlo di riunire la famiglia in America. Quando la trovò nel cassetto, probabilmente tutte le memorie recenti e passate si risvegliarono in un fuoco che arse ogni legame ancora esistente col padre: la prese, e lasciò per sempre la sua famiglia.

In una vetrina che espone vari materiali, c’è anche un disegno che verosimilmente è un autoritratto. Il volto è lo stesso che compare in quella fotografia accanto alla figura della madre, immagine che Gorky ha replicato in vari quadri tra gli anni Venti e Trenta; un’immagine che invoca un rimpatrio che non avverrà. E il disegno di quel volto bambino, con gli occhi e le labbra carichi di disillusa amarezza, annuncia il tragico destino che metterà fine a questa storia.

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