giovedì 25 giugno 2015
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Sullo schermo è un boss della camorra. Astuto, crudele e di poche parole. Un capo temuto e rispettato che vive a Secondigliano e che di nome fa Pietro Savastano. Nella vita è invece un artista nato e cresciuto a teatro, dove ha interpretato Cechov, Ovidio, Pirandello, lavorando con registi di culto come Ejmuntas Nekrošius e Luca Ronconi e specializzandosi con Giorgio Albertazzi. Fa volontariato, ama la grana grossa della terra, che ha coltivato insieme al padre fin da bambino, e la potenza straordinaria della vita. È Fortunato Cerlino, napoletano classe 1971, pilastro della fiction Gomorra e attore e regista fra i più interessanti del panorama nazionale e internazionale: sul suo talento ha puntato anche Hollywood, affidandogli il ruolo dell’ispettore Rinaldo Pazzi nella seconda stagione di Hannibal, il serial ispirato a Il silenzio degli innocenti che molti consensi sta riscuotendo in America. I morti li ha visti anche lui, quando era bambino, riversi sulle strade di Pianura, e pure i camorristi, ma per costruire la personalità di Pietro Savastano è partito da altro. «Da Shakespeare», racconta tra una prova e l’altra di Potevo far fuori la Merkel, ma non l’ho fatto, la pièce da lui scritta e diretta che debutta il 22 giugno al Napoliteatrofestival, «al quale ho aggiunto la lettura di saggi sulla camorra, di romanzi epici, psicoanalitici e di antropologia, e un lavoro sul respiro e sui centri emotivi. Personaggi complessi ed eticamente deviati come questo, che hanno fatto scelte legate al male, del tutto opposte alle mie, vanno raccontati seriamente, con un approccio responsabile da parte dell’attore: fatto in maniera superficiale il rischio è fare del male. Pazzi è invece un personaggio positivo, ossessionato romanticamente da Hannibal ma determinato a seguire un’altra strada rispetto alla sua. In questo caso ho scelto un taglio dark ispirandomi al Dostoevskij di Delitto e castigo».  Nato in un’ampia famiglia popolare (ha quattro fratelli) da un gruista edile rimasto senza lavoro dopo il fallimento della Cassa del Mezzogiorno, e da una signora della media società di Bagnoli-Fuorigrotta, Cerlino non si vergogna di dire di aver vissuto il disagio della povertà e l’imbarazzo che l’accompagna. Né di amare profondamente la terra. «Da mia madre ho imparato l’importanza di studiare, e difatti mi sono diplomato in chimica industriale, una materia che ancora oggi amo, insieme con la fisica quantistica, perché ricchissima di poesia. Da mio padre ho appreso il rapporto con la terra. La domenica, ai tempi della scuola, andavo con lui sui campi, e lavoravo. I ricordi più belli sono quelli di noi sotto il sole, intenti a mangiare la bistecca cotta su una griglia, le patate cotte sul carbone, le fettone di pane cafone con i pomodori ancora bollenti sopra». Sorridendo, rammenta il nonno, a cui l’artista deve il nome. «È stato un personaggio mitico della famiglia: sebbene fosse “solo” un operaio della Italsider aveva una cultura straordinaria. Mi ha insegnato a guardare il mondo in un altro modo ed è grazie a lui se mi sono avvicinato al teatro». Impegnato fino a ottobre con le riprese per la seconda stagione di Gomorra –  tra Napoli, Roma, la Germania, la Croazia e l’Honduras –, appena può aiuta una ong che promuove la solidarietà internazionale con l’Asia, e anche altre realtà. «Quando vedo la disperazione dei migranti non riesco a voltarmi dall’altra parte. So che quello squilibrio lo abbiamo generato noi, accumulando e abusando di risorse che non ci appartengono; il mio cellulare è zeppo d’Africa, la mia automobile è piena di mondo arabo. Il fenomeno delle migrazioni fa parte di una legge fisica ed è inarrestabile ». Tuttavia c’è posto per la speranza: «Io credo molto nell’Italia. Siamo autolesionisti e provinciali, è vero, ma siamo il Paese del Rinascimento».
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