domenica 31 gennaio 2016
Lo scrittore turco che presenta il nuovo libro in Italia, è convinto che se davanti all'immane flusso migratorio «riusciremo a elaborare un nuovo sistema di convivenza, allora questo farà modello» per gli altri Paesi della Regione. I profughi della lingua turca conoscono solo una parola, daha, che significa appunto “di più”, “ancóra”. ​«Daha è il grido di persone incomplete, che non hanno più nulla e hanno bisogno di tutto. Ancora un po’ di acqua, ancora un po’ di futuro, ancora un po’ di cibo o di immaginazione».
Günday: Turchia, l'alternativa possibile per i migranti
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Hakan Günday racconta che ogni suo romanzo comincia da una domanda. «Il guaio è che alla fine non ho mai una risposta – dice – ma cento altri interrogativi con cui misurarmi». Non fa eccezione il suo nuovo libro, Ancóra (traduzione di Fulvio Bertuccelli, Marcos y Marcos, pagine 500, euro 18), che la prossima settimana sarà presentato in diverse città italiane: dopo aver parlato ieri al “Writers Festival” di Milano, domani e martedì lo scrittore turco sarà a Roma (rispettivamente alla librerie Pallotta e minimum fax), e poi a Ivrea, a Torino, a Bologna e infine, domenica, a Palermo. Nato a Rodi nel 1976, Günday è uno dei narratori più originali e coraggiosi del suo Paese, capace di affrontare i drammi della contemporaneità in uno stile insieme poetico e fortemente realistico. Il protagonista di Ancóra si chiama Gazâ ed è un giovanissimo trafficante di esseri umani. Il padre lo mette a guardia di una cisterna nella quale i profughi vengono rinchiusi in attesa di attraversare l’Egeo. Della lingua turca conoscono solo una parola, daha, che significa appunto “di più”, “ancóra”. «Non ho voluto aggiungere altro – spiega Günday – perché la loro è una richiesta assoluta, che non può essere meglio precisata.  Daha è il grido di persone incomplete, che non hanno più nulla e hanno bisogno di tutto. Ancora un po’ di acqua, ancora un po’ di futuro, ancora un po’ di cibo o di immaginazione». È stata questa la domanda di partenza? «Non esattamente. Mi interessava analizzare il rapporto che può instaurarsi fra un individuo e il resto della società, tra il singolo e la massa. Gazâ impersona i vari momenti di questa relazione, che va dal dispotismo al linciaggio. L’aspetto più terribile è che, in determinate condizioni, perfino a un ragazzino può essere conferito un arbitrio pressoché assoluto, diventando spacciatore di false speranze. E le false speranze sono una droga potentissima, danno assuefazione immediata e hanno effetti collaterali irreversibili, il più temendo dei quali, come sappiamo, è la morte in mare aperto». Come si è documentato per scrivere il romanzo? «Ho studiato a fondo i rapporti sui flussi dei profughi, confrontando le loro rotte con quelle del traffico di armi. Coincidono alla perfezione, solo che vengono percorse in direzioni opposte: mitra e fucili si spostano da occidente a oriente, i migranti muovono da oriente per raggiungere l’occidente». Detto così è una di semplicità sconcertante. «Sì, ed è il motivo per cui ho voluto che il protagonista del libro fosse un bambino. Attraverso lo sguardo di Gazâ tutto appare così com’è e ci si accorge subito che le involute analisi dei politici servono soltanto per raffor- zare l’edificio del potere. Quando si accetta l’idea che la violenza possa essere adoperata come strumento di comunicazione, la semplicità regna sovrana. La violenza è violenza, non ammette complessità. E siccome non esiste creatura più complessa dell’essere umano, ecco che l’essere umano stesso va semplificato, ridotto a un oggetto, scambiato come una merce. Dopo di che, non c’è più scelta». È un processo irreversibile? «Non necessariamente. Però imprevedibile, questo sì. Una persona può aver studiato per tutta la vita, può essere un artigiano o un musicista, ma nel momento in cui abbandona la propria terra non è più nulla. Quello che sa, quello che ha imparato con fatica non conta niente, né è dato di sapere se e quando tornerà a contare. Finché dura il viaggio, l’uomo o la donna che si è stati fino a quel momento non esiste più. Prevedere che cosa accadrà anche solo tra un minuto è un mistero, ci si deve consegnare a qualcun altro: un carceriere o una scafista che all’improvviso assume i connotati dell’impotenza». In queste ore si discute della quota che l’Unione Europea dovrebbe versare alla Turchia per bloccare l’arrivo di nuovi profughi. Che ne pensa? «Soluzioni di questo tipo sono dettate dal panico e non hanno alcuna prospettiva di durata. Possono funzionare per qualche anno, al massimo per una generazione o due, ma alla lunga non sono destinate a sbriciolarsi. Pensiamo di mettere al sicuro noi stessi, mentre in effetti stiamo preparando un’eredità pesantissima per i nostri figli e per i figli de nostri figli. Ammettiamo pure che d’ora in poi i profughi non passino più dalla Turchia: troveranno presto un’altra strada, aggireranno l’ostacolo, torneranno comunque a bussare alle porte dell’Europa. Questa non è un’emergenza umanitaria, ma una calamità naturale, un terremoto di dimensioni globali. Pro-anzitutto vo a dirlo ancora più semplicemente: la Terra non è abbastanza grande per impedire la migrazione in corso». L’alternativa quale può essere? «Condividere conoscenza e risorse, intervenire sulle cause della diseguaglianza tra una regione e l’altra del pianeta, smettere di pensare che le conseguenze delle nostre decisioni non debbano riguardarci. Sacrificare qualcosa, come fa Gazâ al termine del romanzo. Il sacrificio non è una rinuncia, ma l’unico modo per ritrovare la pace con se stessi e vivere in armonia con gli altri». Quale potrebbe essere il ruolo della Turchia? «Da almeno un secolo il mio Paese è alla ricerca della propria identità. Il crollo dell’Impero ottomano ha portato alla ridefinizione di confini ai quali i turchi non erano più abituati. Ci siamo trovati in una situazione senza precedenti, nella quale confluiscono tutte le tensioni e le contraddizioni del Medio Oriente. Non possiamo fare altro che improvvisare, sospesi come siamo tra l’Oriente e l’Occidente, ma non sempre l’improvvisazione dà buoni risultati. Si è versato molto sangue, alcune posizioni continuano ad apparire inconciliabili. Ma di sicuro, se mai riusciremo a elaborare un nuovo sistema di convivenza, questo potrà fare da modello per gli altri Paesi della regione». Si riferisce anche all’aspetto religioso? «Dal punto di vista formale la Turchia è una repubblica, e una repubblica laica. Questo implica, se non altro, il tentativo di uscire dalla prigione in cui gran parte dell’islam è oggi costretto. A vegliare sulle mura di questo penitenziario sono da un lato le dittature secolarizzate e dall’altro i movimenti fondamentalisti. In mezzo non sembra esserci nulla e invece è proprio lì che dovremmo cercare, in quell’infinita gamma di soluzioni democratiche alle quali ora come ora nessuno presta veramente attenzione».
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