martedì 11 dicembre 2012
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Il Mali ostaggio dei fondamen-­talisti, la Nigeria dei kamikaze nelle chiese, ma anche il Ma­ghreb, dove l’ascesa dei gruppi sa­lafiti - dall’Egitto alla Tunisia alla Libia - sta raffreddando le speran­ze seguite alle primavere arabe: l’Africa è la nuova frontiera dello scontro di civiltà? Per Catherine Coquery-Vidrovitch, nota africa­nista professore emerito all’Uni­versità Paris-VII, il quadro non è questo. Anzi, «ci sono ben altri fronti su cui il continente, oggi, si sta davvero dimostrando protago­nista ». Un esempio? «Mentre tutto il mondo soffre i contraccolpi del­la crisi economica, l’Africa fa regi­strare una crescita senza prece­denti». La studiosa francese invita a ribal­tare la prospettiva. E lo fa, lei per prima, nel suo libro Breve storia dell’Africa, da poco uscito per Il Mulino (pp. 170, euro 14). In cui, ripercorrendo le tappe salienti di un passato antichissimo («gli an­tenati degli uomini hanno fatto la loro comparsa in Africa parecchi milioni di anni fa», ricorda), fa no­tare come il continente rappre­senti «una straordinaria terra di sintesi» che «non ha mai vissuto, contrariamente a quanto hanno creduto e raccontato gli europei, nell’isolamento». Non c’è da stu­pirsi, dunque, che tutti i grandi fe­nomeni di portata globale - in questo caso l’acuirsi di tensioni che strumentalizzano la sensibi­lità religiosa - si riverberino nelle dinamiche interne all’Africa. Ma le immagini di violenza che ci arrivano dal Sahel o dalla Nigeria non la preoccupano?Naturalmente si tratta di feno­meni gravi, eppure dobbiamo ricordare che l’islam, a sud del Sahara, è in maggio­ranza molto tollerante. Le forme religiose e­stremiste sono mino-­ritarie, anche se sono quelle che fanno più rumore. In Mali, i jiha­disti che stanno semi­nando il terrore ven­gono dalla Libia, men­tre in vari contesti, in primo luogo la Nige­ria, i conflitti in corso hanno ben altre ragioni - terre contese, scontri per le risorse, su una base di povertà e mancanza di prospettive - e non possono af­fatto essere ridotti a tensioni reli­giose. Dunque non vede una rinascita dell’islam militante? Non dimentichiamo che il fon­damentalismo non è appannag­gio dei musulmani, ma, per esem­pio nella Nigeria meridionale e sulla costa occidentale del conti- nente, interessa anche le sette ul­trareligiose cristiane evangeliche e pentecostali. L’estremismo e il ricorso al soprannaturale per giu­stificare la violenza riguardano musulmani, cristiani e anche ani­misti: non siamo di fronte a scon­tri di civiltà, ma a scontri per lo sviluppo. A proposito di sviluppo, lei enfa­tizza l’attuale boom economico in Africa: quali sono le potenzia­lità e i limiti di questo fenomeno? Le potenzialità sono enormi. Il continente possiede riserve im­portanti di tutte le risorse più pre­ziose: diamanti, oro, uranio e so­prattutto petrolio, il che la rende una terra strategica, con tutti i vantaggi, e i rischi, del caso. L’Afri­ca, in particolare quella subsaha­riana, rappresenta l’unica regione che, mentre il resto del mondo è in crisi, continua a fare registrare una rapida crescita del Pil (con il record di sei dei Paesi a sviluppo più rapido degli ultimi dieci anni, ndr). Certo, questi dati dipendono anche dal fatto che il punto di partenza, a livello di sviluppo eco­nomico e industriale, era molto basso. Senza contare alcune con­traddizioni: in certi Stati resistono élite corrotte e inadeguate che im­pediscono che i benefici della cre­scita ricadano sulla maggioranza della popolazione. Si creano così forti diseguaglianze sociali. C’è u­no scollamento tra i progressi di una società civile vivace e una de­mocratizzazione lenta. Eppure, negli ultimi anni assistiamo all’a­scesa di una nuova, rilevante clas­se media. Oltre 300 milioni di perso­ne, secondo la Banca afri­cana di sviluppo: qual è il ruolo di questa classe me­dia? Notevole. Si tratta di un processo accelerato negli ultimi vent’anni. Se nel pe­riodo coloniale solo una piccola maggioranza fre­quentava la scuola, già ne­gli anni Novanta lo scena­rio si era rivoluzionato, e l’istruzione ha portato con sé un’importante diversifi­cazione e modernizzazione delle attività professionali. Oggi, so­prattutto nelle città, esiste una fa­scia sociale fatta di funzionari sta­tali, insegnanti, imprenditori, o­peratori dei servizi, che si sono moltiplicati grazie all’arrivo delle grandi società multinazionali, che hanno aperto sul continente le lo­ro filiali e vi hanno riversato i pro­pri capitali. La nuova borghesia a­fricana rappresenta un mercato molto appetibile, in prospettiva il più grande mercato al mondo». Le conseguenze dell’urbanizza­zione sono solo economiche? «Non solo. Se è vero che in Africa l’urbanizzazione è stata tardiva, oggi ci sono città che sono passate in dieci anni da qualche migliaio a qualche milione di abitanti. Pen­siamo a Libreville, in Gabon, al Sudafrica, al Senegal, o anche a un Paese come il Ruanda, fino a pochi anni fa quasi esclusivamen­te rurale. A livello continentale, la popolazione delle città è pari o addirittura superiore a quella del­le campagne. E le città costitui­scono non solo contesti con mag­giori opportunità formative, sani­tarie e professionali, ma anche i centri della coscienza e dell’attivi­smo politico. Le classi medie ur­bane sono sempre meno disposte a supportare i regimi dittatoriali del passato. Che ne pensa dell’esplosione del­le nuove tecnologie della comu­nicazione? È un fenomeno estremamente importante. Oggi, in Africa, prati­camente tutti hanno un cellulare, gli internet point si sono moltipli­cati: la comunicazione e l’infor­mazione sono chiavi per lo svilup­po e per la crescita della coscienza sociale e politica. Gli intellettuali africani sono sempre più permea­bili agli apporti dell’estero, e an­che la gente comune ha aperto i propri orizzonti. Abbiamo visto il ruolo dei social network nelle ri­voluzioni nordafricane: ebbene, anche a sud del Sahara il cambia­mento sta arrivando».

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