martedì 13 giugno 2023
"The Passanger" e "Stella Maris" sono pieni di riferimenti filosofici, scientifici e religiosi e in entambri sono evocati gli appellativi delle litania mariane
Cormac McCarthy

Cormac McCarthy - WikiCommons

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Il critico americano Steven C. Weisenburger ha notato, nel saggio critico A Gravity’s Rainbow Companion, che gli eventi principali in L’arcobaleno della gravità (1973) - il mastodontico romanzo di Thomas Pynchon, chiave di volta del postmodernismo letterario - cadono in corrispondenza delle maggiori feste del calendario liturgico cattolico: dal Natale alla Pasqua (momento centrale in cui avviene la tremenda esplosione di Blicero), dalla Pentecoste alla Trasfigurazione, fino all’Esaltazione della Santa Croce. La tensione stessa dell’opera sarebbe un percorso redentivo coincidente con il sacrificio del Cristo.

Ma Pynchon non è l’unico autore Usa a far largo uso della simbologia cattolica nei suoi lavori: se con Il silenzio (2021) Don DeLillo aveva parlato del "nome radioso" di "Gesù di Nazareth", in Suttree (1979) di Cormac McCarthy il protagonista, entrando nella chiesa dell’Immacolata Concezione di Knoxville, Tennessee, ricorda con un certo trasporto di quando lì svolgeva le funzioni di chierichetto (un riferimento molto autobiografico). Colpisce straordinariamente che il secondo dei due nuovi romanzi di McCarthy, usciti negli States in autunno per Knopf-Penguin, s’intitoli Stella Maris.

Il primo, The Passenger (in Italia pubblicato da Einaudi con il titolo Il passeggero nella traduzione di Maurizia Balmelli), è ambientato nel 1980 tra New Orleans e la costa della Florida. Protagonista è Bobby Western, subacqueo di salvataggio, che deve fare i conti con la scomparsa del corpo di uno dei passeggeri nel relitto di un jet affondato a Pass Christian in Mississippi. Ma soprattutto deve fronteggiare la morte violenta di sua sorella, Alicia, genio della matematica e affetta da schizofrenia paranoide, a cui era legato da un affetto morboso - quasi un incesto non consumato, a differenza di Il buio fuori (1968) -, assimilabile al rapporto tra Elettra e Oreste.

La dilogia è infarcita di speculazioni filosofiche di alto livello (Spengler e Il tramonto dell’Occidente su tutti, e poi Gödel, Wittgenstein, Russell), continui rimandi alle scienze e, particolarmente, alla fisica (l’ingombrante padre dei Western è uno dei costruttori della bomba atomica). Non dimentichiamo che McCarthy è trustee al Santa Fe Institute e, negli anni, è venuto sempre di più in contatto con studiosi dei sistemi complessi. Nel 2017 ha, inoltre, edito sulla rivista "Nautilus" il suo unico saggio, The Kekulé Problem, dedicato all’origine del linguaggio.

Stella Maris si situa in posizione di analessi rispetto a The Passenger. Siamo nel 1972 a Black River Falls in Wisconsin. Alicia, dottoranda all’Università di Chicago, "donna ebrea/caucasica di vent’anni, attraente forse anoressica" che soffre di "allucinazione visive e uditive" (tra cui un certo Thalidomide Kid), è ricoverata nell’ospedale psichiatrico "Stella Maris". Il testo coincide con le trascrizioni delle sedute della leggiadra teppistella con il dottor Michael Cohen: al lettore italiano viene subito in mente La coscienza di Zeno e non è un’intuizione sbagliata, perché a pagina 21 del libro McCarthy ci sorprende: "This is like having a conversation with Zeno".

Alicia è il primo vero protagonista femminile della letteratura mccarthiana. Chi ha letto Cavalli selvaggi (1992) e Città della pianura (1998) rammenterà le bellissime Alejandra e Magdalena, amate dal cowboy John Grady. Ma le loro interiorità sembravano sfumate, distanti: esse erano la rappresentazione dell’Ewig-Weibliche di Goethe e, come tali, erano offerte nell’insondabile distanza del loro essere, pur con un brivido di "marianità". Con Alicia il discorso è del tutto diverso. Qui McCarthy intende entrare "nella testa" di una ragazza. In un’intervista di alcuni anni fa rilasciata al Wall Street Journal, lo scrittore di Providence confessò: "Erano cinquant’anni che volevo scrivere su una donna. Non sarò mai competente abbastanza da farlo, ma a un certo punto bisogna provare".

Questo è il risultato: "Ciao. Sono il dottor Cohen. / Non sei il dottor Cohen che stavo aspettando. / Mi dispiace. Forse attendevi il dottor Robert Cohen. / Sì. Mi pare che qui i dottor Cohen non manchino. / Probabilmente no. Come stai? Ti senti bene? / Se sto bene. / Sì. / Sono in un manicomio. / Sì. A parte questo, intendo". Sono le primissime battute di Stella Maris. Com’è consueto nella scrittura di McCarthy, per esigenze di pulizia grafica, mancano le virgolette nei discorsi diretti che si succedono, quindi, in una forma nuda e intuitiva. La prosa è franta, tanto da prendere l’aspetto di una gravità biblica che si riverbera anche nelle atmosfere di diffuso "misticismo cristiano" e gnostico (si veda, a tal proposito, la sezione Intellectual Contexts di Cormac McCarthy in Context, Cambridge University Press, 2020), tipiche di romanzi come Figlio di Dio (1973) e Meridiano di sangue (1985).

Il lungo botta e risposta tra il dottor Cohen e Alicia, nelle varie e talora non entusiastiche recensioni apparse nei paesi anglofoni, è stato definito come un dialogo platonico. C’è però molta dicotomia tragica sul modello dei drammi sofoclei. Per tornare alle suggestioni cattoliche, nessuna delle recensioni summenzionate si è domandata il motivo profondo di un titolo così iconico. Stella Maris non può essere soltanto l’intestazione di una casa di cura. La dimostrazione della potenza del simbolo è nella prima scena di The Passenger in cui è rappresentata incisivamente Alicia, ritrovata morta la notte di Natale da un cacciatore. Il quale non esita a dire: "Tower of Ivory, he said. House of Gold". Torre d’avorio, casa d’oro. Le litanie lauretane. Ecco la difficile, frastagliata relazione tra la fanciulla, vergine anch’ella, e Maria.

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