martedì 17 settembre 2013
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​La lista di Robotti è il ribaltamento della lista di Schindler: sommersi anziché salvati, rossi anziché neri, il punto di vista dei carnefici anziché delle vittime. Quella stilata da Paolo Robotti elencava centoventicinque nomi: tutti comunisti come lui, come lui emigrati in Unione Sovietica, come lui finiti nel mirino della Nkvd. A differenza di lui, però, inghiottiti dal Terrore staliniano, fucilati dalla polizia politica o morti in gulag (capitoli a sé sono quelli della comunità italiana di Crimea, qualche migliaio di emigranti principalmente pugliesi, e dei prigionieri di guerra, internati a migliaia dopo il collasso dell’Armir e rientrati in pochissimi). Le loro storie e quella di centinaia di altri italiani, attratti dalle sirene del “paradiso rosso” e accorsi alla costruzione del Paese del socialismo ma da questo traditi, le racconta Arrigo Petacco in A Mosca solo andata. La tragica avventura dei comunisti italiani in Russia, che esce oggi per Mondadori (pagine 158, euro 19,00). Allo stesso Robotti, presidente del Club degli emigrati, nemmeno l’essere cognato di Togliatti (allora potente numero due del Comintern) bastò per evitare la visita della polizia politica, che lo tenne per mesi in detenzione; torturato (dovette portare per tutta la vita un rigido busto), non cedette alla tentazione di confessare e alla fine la spuntò. Rientrato in Italia nel dopoguerra, tenne per sé la memoria dell’orrore staliniano che pure aveva toccato con mano: ligio alla disciplina di un partito al quale non aveva mai smesso di credere, soltanto dopo la destalinizzazione kruscioviana narrò alle massime sfere del Pci quel che sapeva.Ricevendo in risposta (dallo stesso Togliatti) l’ordine di continuare a tacere. Soltanto dopo la morte del “Migliore” pubblicò le sue memorie, che Petacco usa come bussola per raccogliere le fila delle centinaia di storie individuali, per lo più frammentarie e incerte, dei comunisti italiani che avevano sperato di trovare nella casa madre sovietica la realizzazione delle loro utopie. Il primo impatto era in effetti incoraggiante: gli emigranti erano accolti con calore, venivano subito impiegati (la Russia aveva fame di operai specializzati), trovavano casa e amicizie. Così come, ovviamente, gli alti papaveri del Pci in esilio – Togliatti, Longo, Pastore, Di Vittorio, ... – ospitati dal famoso (e, dopo gli anni Trenta, famigerato) Hotel Lux. Gli altri si barcamenarono alla meno peggio, delusi dal socialismo reale ma ancora fiduciosi nel socialismo in costruzione, fino al dicembre del 1934, quando Stalin avviò le purghe. A quelle contro gli italiani – i pesci piccoli, i grossi furono risparmiati in un’eccezione solo italiana – diede il suo zelante contributo proprio chi avrebbe dovuto difenderli, come Robotti o Antonio Roasio dell’Ufficio quadri. Molte delle “note caratteristiche” del Pci, che descrivevano ogni emigrante e le sue passate “deviazioni”, finirono nella mani dell’Nkvd, diventando ipso facto altrettante sentenze di condanna. Sospetti erano tutti gli emigranti della prima ondata, comunisti ma anche socialisti e anarchici, approdati in Russia perché braccati dalle polizie di mezza Europa. Erano per lo più operai delle grandi città del Nord, ma tra loro c’erano anche figure singolari come il barbiere cuneese Giovanni Germanetto o il giornalista napoletano Edmondo Peluso. Molti presero la cittadinanza sovietica, un un atto di adesione ideologica che si sarebbe rivelata, al tempo del Terrore, un errore: con il passaporto avevano rinunciato a ogni tutela da parte della madrepatria e subirono tutte le vessazioni cui erano soggetti gli altri sovietici. Petacco racconta le loro storie attraverso i frammenti disponibili: qualche lettera, qualche reticente documento ufficiale, le scarse testimonianze di chi ebbe notizie sulla loro sorte e non ne subì una uguale. Come Dante Corneli, il principale testimone italiano del Terrore: veniva da Tivoli, alle porte di Roma, dove nel 1922 aveva ucciso il locale segretario del fascio. In Russia si stabilì a San Pietroburgo e aderì alla fazione anti-staliniana di Trotsky, Zinov’ev e Kamenev. Dopo la loro sconfitta fece autocritica, sposò una donna russa, lavorò in una fabbrica di cuscinetti a sfera. Ma nel 1936 alla sua porta bussò la Nkvd. Sopravvisse a dieci anni di gulag nell’Artico, nel dopoguerra continuò a essere un sorvegliato speciale con tanto di confino, e solo nel 1970 rientrò stabilmente in Italia. Anche le sue memorie, che riuscì a pubblicare solo nel 1977, ebbero vita tormentata, osteggiate o ignorate dal Pci. I centoventicinque che Robotti nel 1961 propose di riabilitare non erano che un frammento del quadro d’insieme molto più ampio. Petacco rievoca la conversazione che ebbe all’epoca con il dirigente comunista: «“Forse erano più di centoventicinque...”, commentai. E lui serafico: “Sì, è vero, ma gli altri non erano compagni: erano anarchici, socialisti, provocatori...”, e liquidò la cosa con un gesto di sufficienza». E comunque nemmeno i centoventicinque furono riabilitati: «Queste sono cose da dimenticare», aveva sentenziato Togliatti. «A differenza degli altri “partiti fratelli” – osserva Petacco – il Pci non riabilitò i comunisti italiani decimati dalle purghe staliniane e impedì anche in seguito, finché gli fu possibile, ogni ricerca negli archivi sovietici. Si voleva cancellare anche la loro memoria e purtroppo ci riuscirono».
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