giovedì 22 aprile 2021
L’ipocrisia permette una metamorfosi inquietante, versione degenerata di quella dell’attore: il carnefice e il suo complice o il suo tacito connivente si travestono da benefattori e da uomini pii
Maschere del teatro romano, mosaico dalle Terme Deciane. Roma, Musei Capitolini

Maschere del teatro romano, mosaico dalle Terme Deciane. Roma, Musei Capitolini

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Può suonare strano che ipocrisia alle origini non fosse sinonimo di infamia. Ipocrita, nell’etimo, è colui che finge, l’attore. L’attore sublima la simulazione trasformandola in un tramite possibile di verità. L’ipocrisia, in questo senso, è uno strumento prezioso che permette la messa in scena di storie, personaggi, eventi, perfino pensieri, con la facoltà di rileggerne i contenuti. La recitazione dell’ipocrita teatrale è una luce direzionale di ipotesi che illumina temporaneamente i soggetti coinvolti. Non importa cosa ne esce fuori. Ne risulterà comunque un arricchimento interpretativo della realtà.

Oggi è diverso: ipocrisia è sinonimo della doppiezza maligna, tanto vituperata quanto pandemica. Così ubiquitaria da generare la sua forma collettiva che non coincide con una sommatoria delle versioni individuali. Le sue manifestazioni più impressionanti si palesano durante le emergenze, nel cui terreno paludoso sguazzano con grande entusiasmo. Per il genere umano l’ipocrisia funziona da livella più della morte, da cui si differenzia perché non è subìta ma agìta in gradi di consapevolezza che si ritraggono come topi appena si tenta di entrare nelle soffitte perennemente oscurate dell’omissione. Le emergenze dividono grossomodo l’umanità in due categorie. Quelli che le vivono in modo urgente e diretto perché colti dal turbine dei fatti, e quelli che le vivono mediate, favoriti dai privilegi di ceto, classe, cespite, cultura. Per questi ultimi, a cui lo tsunami degli accadimenti fa uno sconto temporale, l’emergenza diventa un’occasione imperdibile per gli esercizi di stile più svariati. Dall’oziosa elaborazione di teorie più o meno attendibili di cui le cavie sono gli altri, allo sfoggio spericolato di narcisismi proposti ogni volta come l’avvento del profeta di turno.

Su questo quadro cala generalmente il sipario ponderoso delle ipocrisie ricamato di valori generici e recitati, presi a prestito un po’ ovunque. Questa coltre stratificata da secoli di astuzie inquina entrambe le categorie. Diventa manifesto di un’etica dissimulata, parola d’ordine di appartenenza o esclusione. Se non si parla di quella parola si diventa reietti, eversivi, irresponsabili e quant’altro. Nell’emergenza spadroneggia la fedeltà alla convenzione applicata con la forza di una mordacchia sulla realtà, sul senso critico, sull’individualità e infine sui diritti. L’impulso che deriva da un pericolo dovrebbe attivare, nell’uomo dell’umanesimo tanto sbandierato quanto sconosciuto, istinti come solidarietà, desiderio profondo di sincerità, condivisione, comprensione, empatia. Invece diventa interrogazione diretta e incontrollabile della sopravvivenza elementare, mai latrice di valore, non di rado foriera di tragedia. Si genera così una cascata interminabile di “serrate i ranghi” corazzati da retoriche tanto inespugnabili quanto dichiaratamente posticce. Si serrano i ranghi dei gruppi, delle relazioni, delle convinzioni, dei gesti. Serrare significa limitare il campo di azione e pensiero, restringendolo a territori autoriferiti, involuzioni tossiche e ingravescenti, fossilizzazioni della relazione, del cammino umano, della sua dinamica. L’uomo percepisce la minaccia e si ritira nella tana che ritiene più sicura. Ma dal momento che si chiama “uomo” non dovrebbe abdicare alla responsabilità che eredita dalla sua libertà di ribellione agli istinti animali.

La sopravvivenza è una forza estremamente potente, ma non è un valore assoluto se millenni di riflessioni e percorso umanistico hanno un senso. Se è legittimo cercare sicurezza, è altrettanto vero che vi sono tipi di sicurezza inconciliabili tra loro, inconciliabili con un’umanità matura, inconciliabili con solidarietà e fraternità, inconciliabili con la dignità. La sicurezza della sincerità genuina e della cooperazione, del dialogo e della vicinanza non ha nulla a che vedere con la sicurezza che cerca la maggior parte degli esseri umani quando avverte l’approssimarsi della minaccia, reale o supposta che sia: la sicurezza del sopravvivere a ogni costo, della persistenza dei propri vantaggi, dei propri opportunismi. Chi sceglie la seconda, e neanche a dirlo è la maggioranza delle persone, sacrifica tutto per il proprio vantaggio, per lo scudo confortevole dell’ipocrisia di gruppo che identifica sempre il proprio nemico come nemico del consesso sociale.

L’ipocrisia permette una metamorfosi inquietante, versione degenerata di quella dell’attore: il carnefice e il suo complice o il suo tacito connivente si travestono da benefattori, da salvatori, da solidali, da uomini pii. Nella realtà la finzione sarebbe molto facile da scoprire: è sufficiente portare l’ipocrita al confronto con l’azione che dovrebbe seguire le dichiarazioni d’intenti. Ma la recita si confà così bene agli equilibri delle rendite di posizione che nessuno si azzarda a metterla in discussione. Così l’ipocrita regna sovrano nel territorio della finzione che nasconde la radice profonda dei disastri grandi e piccoli dell’umanità e del vivere quotidiano.

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