venerdì 29 maggio 2020
Una minoranza perlopiù ignota agli stessi giapponesi sta vivendo un processo di pieno riconoscimento legale. Oggi apre un museo a Shiraoi su Hokkaido
Un matrimonio tradizionale Ainu

Un matrimonio tradizionale Ainu - WikiCommons

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In Giappone una minoranza perlopiù ignota agli stessi giapponesi sta vivendo quello che potrebbe essere un processo di rivalutazione e, soprattutto, di pieno riconoscimento legale. Un effetto diretto della legislazione introdotta nel febbraio 2019 che per la prima volta ha identificato gli Ainu come “popolazione indigena”. La serie di consultazioni tra autorità e rappresentanti della comunità si erano concluse due anni fa con la richiesta di maggiori diritti sui terreni pubblici, più fondi per l’insegnamento della lingua e della cultura Ainu e le scuse formali del governo per la persistente discriminazione. Nulla di concreto ne era uscito, se non il riconoscimento della loro esistenza. Era stato lo stesso funzionario responsabile dell’Ufficio per la politica onnicomprensiva giapponese per gli Ainu, Hiroshi Koyama, a dovere ammettere «non possiamo fare qualcosa che non sarà attuabile». Restituire agli Ainu le foreste che sono state per lungo tempo loro rifugio e fonte di sostentamento «sarebbe accolto con difficoltà dal popolo giapponese», perché li porrebbe davanti a responsabilità storiche e anche perché sarebbe visto come un insulto verso i coloni che negli ultimi secoli hanno popolato la grande isola di Hokkaido, ultimo lembo settentrionale dell’arcipelago giapponese, consentendone sfruttamento, sviluppo e integrazione nel Paese. Facendo di quella che fu a lungo “il selvaggio West”, terra di avventurieri, disperati e esiliati, la “nuova frontiera” economica, per la ricchezza di risorse, le possibilità offerte allo sviluppo turistico e la posizione a ridosso di aree contese dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale che la Russia rivendica come proprie ma ancora soggette a trattative.

In questo contesto, cedere alle richieste dei leader Ainu, ricordava ancora Koyama «porterebbe a focalizzare l’attenzione sulle negatività del passato e non sul futuro». Le vicende, le poche tracce storiche e la storiografia ufficiale hanno fatto anche del passato di questa popolazione un vuoto o un mito a seconda delle prospettive. D’altra parte, le caratteristiche fisiche, culturali e religiose che porterebbero a un’analisi sommaria ad avvicinarla alle popolazioni siberiane ma che studi antropologici connettono anche alla diffusione verso settentrione di popolazioni originarie di aree meridionali del Giappone, hanno dato luogo a diverse teorie sull’origine senza arrivare a conclusioni definitive, lasciando gli Ainu in una sorta di sospensione tra origini continentali e autoctone. Con ogni probabilità, se non in modo esclusivo, la concentrazione di questa popolazione nell’Hokkaido deriva dalla migrazione dall’isola di Honshu, sotto la pressione di gruppi centrali nell’evoluzione storica e culturale del Giappone e oggi ampiamente maggioritari, almeno dal XIV secolo e di poco successivo fu l’avvio del loro stanziamento anche nell’odierna Sakhalin e nell’arcipelago delle Kurili.

In queste aree ostili e selvagge, gli Ainu affinarono le tecniche di caccia e di pesca, le loro particolarità culturali e religiose; in buona sostanza, la loro “diversità” dai giapponesi storicamente vincitori che, quando nel XIX avviarono la conquista e colonizzazione di Ezochi (Hokkaido), imposero loro un’emarginazione che includeva la proibizione dell’uso della lingua e della manifestazione delle loro caratteristiche culturali che fu codificata nella Legge per la protezione degli ex aborigeni del 1899. Una situazione a cui formalmente mise fine la Legge per la promozione della cultura Ainu del 1997, che aboliva quella precedente. In realtà, come sottolineato dallo studioso Hiroshi Maruyama, «la nuova iniziativa, che avrebbe dovuto sanare le sofferenze dovute alla politica di assimilazione, non stipulava né le origini locali degli Ainu né i loro diritti alla lingua e alla cultura ed è rimasta di fatto in vigore anche dopo il riconoscimento ufficiale nel 2008 degli Ainu come popolazione indigena del Giappone settentrionale e la firma l’anno successivo da parte del governo giapponese della Dichiarazione Onu sui Diritti dei popoli indigeni».

Nel 2017 una ricerca governativa ha portato a individuare meno di 13mila Ainu nell’Hokkaido. Più che una certezza demografica, una conferma della loro emarginazione. Sarebbero in numero molto maggiore quelli che preferiscono non evidenziare le proprie origini o che sono migrati altrove in Giappone in cerca di opportunità dato che, mostrano ancora dati ufficiali, i giovani Ainu hanno una possibilità inferiore della metà rispetto ai coetanei giapponesi di accedere a livelli di studio superiori e i loro genitori hanno redditi sensibilmente inferiori. «La società nel suo insieme non ha mai accettato gli Ainu, costringendo molti a celare la propria identità. Sono tanti gli ‘Ainu silenti’», segnala Mai Ishihara, antropologa dell’Università dell’Hokkaido che solo all’età di 12 anni ha scoperto di avere radici in questa popolazione. Il dibattito sui diritti e sull’identità Ainu è tutt’altro che esaurito, ma a livello ufficiale è affrontato ancora in modo poco più che simbolico, con due eventi concomitanti in corso di attuazione. Il primo riguarda l’inserimento degli Ainu in 35 testi per le scuole medie medie utilizzati dal prossimo anno.

Una decisione in linea con gli indirizzi ufficiali che porterà a 85 complessive le pagine dedicate a questa minoranza sui libri di geografia, storia, educazione civica, con un’attenzione maggiore agli aspetti identitari. Di rilievo nei testi, il riconoscimento di Yukie Chiri, deceduta giovanissima nel 1922, che tramandò l’essenza dell’epica Ainu, o di Yoko Kawakami, artista oggi impegnata a recuperare e eseguire i canti della propria tradizione. Elementi culturali e etnografici che troveranno spazio nell’“Upopoy” (nome che richiama i canti comunitari della minoranza), il Museo e parco nazionale degli Ainu la cui apertura, rinviata dal 24 aprile, avverrà oggi. Edificato sulla sponda del lago Poroto, presso la città di Shiraoi in Hokkaido, quello che è ufficialmente indicato come «spazio simbolico per l’armonia etnica» e che avrebbe dovuto far parte dei percorsi culturali in occasione delle Olimpiadi estive ora posticipate al 2020, è costato finora 200 milioni di euro. Ne faranno parte un museo, la replica di un villaggio Ainu e un memoriale della comunità, con ossa di centinaia di individui finora disperse tra le università del Paese. L’opera ha visto non pochi contrasti anche all’interno della comunità Ainu. Se un’organizzazione che ha circa 2.000 aderenti ha approvato l’azione governativa per i possibili benefici sul turismo e sull’economia locale, molti avrebbero preferito l’impegno a ricordare le politiche di assimilazione forzata del passato e a restituire agli Ainu luoghi di culto e diritti sulle terre ancestrali.

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