venerdì 8 giugno 2012
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Gli ebrei italiani che si riaffacciavano nel 1945 alla vita politica aderivano prevalentemente a partiti di sinistra: comunisti, socialisti, repubblicani, radicali. A tenerli comunque lontani dalla destra era il fatto che in questa destra del MSI erano confluiti gli eredi dell’antisemitismo e della Repubblica di Salò, anche se il profilo che l’MSI tenne su questo problema fu negli anni del dopoguerra estremamente basso. Nel 1948, la fondazione dello Stato di Israele non cambiò inizialmente i loro schieramenti politici, dato il sostegno iniziale fornito dall’URSS al nuovo Stato, nonostante fossero in URSS anni di crescente persecuzione antisemita. A partire dai primi anni Cinquanta, con un’acme nel 1956 e poi nel 1967, tuttavia, il venir meno del sostegno sovietico a Israele e il crescere invece del suo appoggio ai Paesi arabi, la militanza di sinistra di molti ebrei italiani entrò in crisi, determinando fra la loro appartenenza ebraica, la loro identificazione sionista e la loro identità politica contraddizioni anche assai dolorose. È questo il tema di un attento studio di un giovane ricercatore, Matteo Di Figlia, appena pubblicato da Donzelli (Israele e la sinistra. Gli ebrei nel dibattito pubblico italiano dal 1945 a oggi, pagine 195, euro 25), volto a rendere questa immagine ormai molto accettata del divorzio tra sinistra ed ebrei assai più differenziata e sfumata di quanto non fosse finora. In sostanza, la tesi del libro è che fra gli ebrei italiani, attraverso cambiamenti tanto generazionali che culturali, l’appartenenza politica alla sinistra si sia in molta parte mantenuta, determinando negli individui come anche nelle dirigenze comunitarie un notevole pluralismo di atteggiamenti nei confronti di Israele e conservando ai vertici delle comunità anche ebrei di sinistra, capaci di esprimere critiche alla politica dei governi israeliani: per non fare che un nome, Amos Luzzatto. L’altra affermazione importante che emerge dal lavoro è l’idea che la strategia politica su Israele abbia determinato notevoli trasformazioni anche nelle posizioni dei partiti e nei loro rapporti, divenendo un fattore chiave degli schieramenti politici italiani in generale, cambiando le appartenenze e le alleanze non solo degli ebrei, ma di molti dei politici e degli intellettuali italiani, da Nenni a Garosci, da La Malfa a Pannella a Fassino. Nella sua analisi, che parte dal 1948 per arrivare a lambire i problemi dell’oggi, Matteo Di Figlia si avvale della pubblicistica e della memorialistica, come anche di tutta una serie di interviste fatte a intellettuali ebrei quasi tutti provenienti dalle file della militanza di sinistra, alcuni dei quali passati, attraverso la questione di Israele, su posizioni politiche molto distanti dal passato, ma tutti transitati attraverso un percorso complesso di ridefinizione identitaria e di ripensamento del rapporto con la politica, con i miti terzomondisti. Mentre intanto la stessa Israele mutava la sua fisionomia culturale e politica, attraverso i conflitti, il terrorismo palestinese, le due intifade. Molti i protagonisti di questa vicenda, da Natalia Ginzburg a Franco Fortini, da Emilio Sereni a Leo Valiani, da Amos Luzzatto a Guido Fubini, da Tullia Zevi a Bruno Zevi, alla generazione successiva, quella dei figli, protagonisti a loro volta di passaggi diversi da quelli dei padri, attraverso il PCI, la militanza nei gruppi extraparlamentari, il recupero dell’identità ebraica, e in molti casi il passaggio a nuove spaccature identitarie: Stefano Levi Della Torre, Fiamma Nirenstein, Luca Zevi, Clara Sereni, Gad Lerner e molti altri. Di Figlia insiste molto sulla periodizzazione, evidenziando come momento di forte rottura non il 1989, bensì il 1982 e la crisi che attraversa il mondo ebraico italiano in seguito alla guerra del Libano e al massacro di Sabra e Chatila. Una periodizzazione sulla quale sono assolutamente d’accordo e che è stata anche quella che attraversa il mio percorso politico. Di grande interesse, e significative di percorsi molto frastagliati e mai omogenei tra assimilazione, sionismo, antifascismo e appartenenza nazionale italiana sono le biografie che l’autore abbozza, con il supporto, ove possibile, delle interviste dirette ai protagonisti. Il quadro che ne emerge è però indicativo dei politici, degli intellettuali, dei giornalisti, degli iscritti ai partiti e dei militanti nei movimenti. Si tratta, certo, di una scelta precisa dell’autore, che sviscera un percorso consapevole, politico, lontano da paure o visceralità o comunque attento a tradurle in termini razionali e universali. Mi domando quale sarebbe stato il quadro se l’autore si fosse proposto di illuminare i percorsi di quanti la politica non la vivevano come passione, ma come strapotere, violenza, eterna persecuzione. Gli strati meno acculturati delle comunità, il 'volgo ebraico' insomma. Sarebbe stato certamente diverso, mi piacerebbe capire come e quanto. Forse, nel suo prossimo libro?
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