domenica 9 maggio 2010
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Spazio continuo, completezza priva di interruzioni, leggerezza, trasparenza, presenza fisica dell’edificio che si ritrae per dar agio a persone, oggetti, attività... Sono alcune espressioni usate dalla giuria del Premio internazionale di architettura Pritzker per motivarne in questo 2010 l’attribuzione ai giapponesi Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa, che hanno fondato e operano nello studio Sanaa.A guardare i loro progetti si comprende subito l’intendimento. E inevitabilmente la mente corre all’immagine della tradizionale casa nipponica, con le pareti leggerissime e quasi trasparenti montate su telai a volte scorrevoli, col pavimento di legno che è il "luogo" proprio dello "stare" poiché non vi sono tavoli (in giapponese non esiste neppure la parola) o sedie e lo stesso caminetto non è che una fossa quadrangolare in mezzo alla stanza; e gli ambienti appaiono vuoti: pura spazialità. Una delicata essenzialità che si ritrova nei progetti di Sanaa, dove le pareti sembrano elementi quasi simbolici, concepiti non per dividere ma per costituire un segno, per indicare un’intimità che sia tuttavia aperta all’accoglienza o, quanto meno, al dialogo: un momento di separazione la cui forza è solamente ideale. Il terminale portuale di Naoshima, in Giappone, con particolare efficacia esprime la filosofia progettuale di Sanaa; è costituito da una tettoia perfettamente piana e sottilissima, retta da colonne tanto esili da scomparire quasi alla vista. Sotto quest’ampia copertura, qua e là alcune pareti di vetro contengono la sala d’aspetto e la biglietteria. Un progetto che si direbbe fatto di niente, in cui la "firma" dell’architetto sembra volersi eclissare; vi assomiglia molto anche il "Glass Pavilion" del Museo d’arte di Toledo in Ohio.Alte realizzazioni di Sanaa sono più marcate, come per esempio il Nuovo Museo di Arte Contemporanea di New York, che è stato descritto come «una scultorea pila di scatole dinamicamente spostate fuori asse attorno a un perno centrale di acciaio»: anch’esso un progetto che si potrebbe classificare come "minimalista", ma che va al di là di tale tendenza, perché origina da una sensibilità diversa da quella occidentale che dal "moderno" ha derivato anche quella spoliazione di forma e ornamenti che si individua col superlativo di "piccolo". È un edificio che sembra non avere finestre; sia perché è bene che in un museo la luce spiova dall’alto, sia perché le pareti sono diaframmi che presentano una continuità di superficie tanto là dove sono opache, quanto là dove sono traslucide.Con singolare coerenza il premio sarà conferito il 17 maggio in Ellis Island a New York, il brano di terra dominato dalla svettante figura della Statua della Libertà, dove approdavano le navi degli immigranti che qui erano esaminati prima di essere ammessi nel Nuovo Mondo, o da questo respinti. Un luogo che era confine e quindi poteva essere barriera oppure via d’accesso.E questo tema - separazione o passaggio - presenta un tipo di ambiguità che Kazuyo Sejima sembra avere a cuore: ne ha parlato nella dichiarazione che ha rilasciata nel novembre 2009, dopo aver appreso di essere stata nominata direttrice della XII Biennale Internazionale d’Architettura di Venezia (dal 29 agosto al 21 novembre). Un significativo punto di partenza per tale esposizione «potrebbe essere il concetto di confine e l’adattamento dello spazio. Questo potrebbe includere sia l’eliminazione dei confini, sia la loro evidenziazione», ha scritto. E più oltre: «Privato e pubblico, contemporaneo e classico, natura e uomo... Forse l’ossimoro può rappresentare un nuovo paradigma produttivo; possono tali binomi portare a una dualità in grado di sfumare i confini?». Sejima era già stata curatrice del padiglione giapponese nella Biennale dell’anno 2000 (intitolato "City of Girls", città delle ragazze) e sembra un poco un araldo della femminilità nell’architettura contemporanea: ha studiato alla Japan Women’s University, è la prima donna a dirigere una Biennale e la seconda dopo Zaha Hadid a ottenere il Pritzker.Con un tocco che, oltre a esprimere la muliebre capacità di accogliere, rimanda alla tradizionale ospitalità giapponese, Sejima sottolinea: «La Biennale dev’essere tutto e ogni cosa, fondamentalmente inclusiva, in dialogo costante sia con chi la fa, sia con chi la guarda». E non a caso, quando ha saputo di aver ricevuto il Pritzker, oltre a ringraziare l’organizzazione del premio, ha avuto parole di riconoscenza verso i suoi committenti, cioè coloro i quali hanno dato, a lei e a Nishizawa, la possibilità di esprimersi attraverso i loro progetti. Quella di Sanaa è un’architettura della gentilezza. Forse nella duplice riconoscimento del Pritzker e della Biennale si può ravvisare l’auspicio per una nuova era: di dialogo, di accoglienza, di inclusione.
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