venerdì 30 giugno 2017
Il pittore inglese cinquantenne, espone dipinti disegni e sculture al Museo Bardini di Firenze. Un neorococò analogo a quello dell'ultimo Hirst
Un dipinto del pittore inglese Glenn Brown

Un dipinto del pittore inglese Glenn Brown - StudioPoe

COMMENTA E CONDIVIDI

Il kitsch popolare e provocatorio ha una lunga tradizione nella storia moderna dell’arte inglese. Ma l’esempio attualissimo è quello di Damien Hirst e il suo lunapark Barnum a Venezia in queste settimane. Le incrostazioni multicolori che Hirst ha ricreato su alcune forme classiche di opere che ha immaginato di ripescare dal mare, un antico tesoro scomparso secoli e secoli fa nel naufragio della nave che lo trasportava, è una finzione che ha la sua genesi proprio nello spazio concettuale del kitsch. Ma si tratta di un kitsch che gioca con un certo snobismo fashion, alla moda, con effetti speciali che hanno in gran parte sostituito il valore artistico come nelle stesse creazioni di abiti firmati. Il brand, come si dice oggi, il marchio distintivo conta più della qualità estetica di ciò che viene prodotto. Se Hirst, istrione inglese che in occasione della Brexit realizzò con le sue celebri farfalle un’opera intitolata IN, ma che nell’atteggiamento mentale si comporta esattamente al contrario battendo strade che si distaccano sempre più dalla tradizione europea esasperando il pop appunto in estremo kitsch; se Hirst è la punta sfolgorante dell’iceberg, tuttavia si deve riconoscere nella sua ultima impresa una propensione british all’esornazione, a una specie di nuovo stile rocaille che si coglie, sia pure in tutt’altro modo, anche nell’opera dell’artista Glenn Brown esposto al Museo Stefano Bardini di Firenze nella mostra Piaceri Sconosciuti (a cura di Sergio Risaliti).


Brown, in realtà, non gradisce l’accostamento a Hirst; dice anzi di essere agli antipodi dell’illustre connazionale. Il suo mentore è Gagosian, uno dei più influenti galleristi d’arte al mondo. Le sue opere vengono vendute a prezzi che vanno da alcune decine di migliaia i euro (per i disegni) fino a un milione e mezzo di euro per i dipinti e le sculture. Cifre elevate che la sapienza tecnica di Brown però non basta a giustificare. Ci vuole un’altrettanto sapiente politica commerciale e comunicativa a livello planetario perché un artista cinquantenne, che produce una pittura rivolta all’arte del passato, possa spuntare questi valori di mercato. Con un milione e mezzo di euro oggi che cosa si può comprare sul mercato sia di artisti antichi che moderni storicizzati, scelte che di per sé garantiscono una stabilità del valore maggiore di quanto non possa promettere l’arte di Brown ancora da storicizzare? E quanti artisti italiani della sua stessa generazione possono vantare qualità tecniche identiche (e talvolta anche superiori) a Brown, che sul mercato spuntano però valori economici molto inferiori (e forse anche più comprensibili per un artista ancora così giovane)? Certo il sistema italiano ha un potere contrattuale sul mercato internazionale molto debole, ma questo non significa forse che il valore estetico dipende ormai da quello economico planetario?

Domande che è bene porsi, e non solo per Brown. Moda, spettacolo, arte: un tricorno che nelle alte sfere si muove all’unisono, con le stesse dinamiche di sopravvalutazione del valore economico rispetto alle qualità estetiche di ciò che viene prodotto. A muovere i fili di questa triade è il capitale finanziario, che detta nel mondo della comunicazione l’orientamento del gusto e lo fa con le stesse logiche con cui quello stesso capitale si genera, enfatizzando e implementando la risposta fra offerta e desiderio, fra domanda e produzione.
Brown è un artista, come ho già detto, di notevoli doti tecniche. La sua ispirazione, che cerca sempre un riferimento nelle forme e nei soggetti del passato, è superfetativa. Aggiunge qualcosa manipolando la fonte senza veramente sublimarla, o metabolizzarla. Lo si comprende meglio osservando le sue sculture in metallo e vetroresina, dipinte con colori acrilici.
Le parole che Cesare Cunaccia spende nel catalogo della mostra per rendere la qualità e il senso della pittura di Brown sono anche eccessive e fuori centro: provocazione, liquefazione, decomposizione, eresia, sacrilegio, blasfemia. Mi sembrano tutte funzionali a montare la panna, per così dire. Non trovo davvero nulla di provocatorio in Brown, mi pare anzi che la sua pittura come la sua scultura siano molto cerebrali e alludano a una sorta di alchimia fredda della forma, dove il segno breve e idiomatico si tende come un filo ritorto, segno spermatico che si aggroviglia sulla tela per generare un bozzolo o un flusso mentale. La conoscenza della storia dell’arte che Brown possiede è fuori discussione: si dice di Rembrandt, ma si avverte anche un certo fulgore segnico derivato dalla grafica tedesca dal XVI al XVII secolo; c’è il rimando al Settecento, ma l’accostamento con Tiepolo invece manca di riscontro; tanto è lieve e aereo, come l’acqua dell’alchimista, il veneziano, quanto pesante e solido il pittore inglese.

Ma a proposito di Hirst, pare evidente che Brown si muove diversamente, è più legato al mestiere e più coinvolto nella realizzazione di quanto non faccia l’altro, che progetta e fa realizzare le sue opere con un procedimento simile a quello pantografico della stampante digitale; e tuttavia, Francesco Bonami che, come al solito spende parole compiacenti per quelli che dominano la scena internazionale («Mai prima d’ora la pittura è stata esplorata così in profondità...»: deve averne vista poca Bonami prima d’ora... e in effetti lui stima Hirst, Koons e Cattelan...), ha parlato per Brown di «chirurgia plastica». Sarebbe lui, dunque, a ringiovanire un’arte che a molti pare invecchiata inesorabilmente, ma che risulta tale soltanto perché mancano immaginazione e qualità tecniche, e soprattutto ispirazione poetica, per ridare alla pittura il posto supremo che le compete sulla scena estetica. Brown, in effetti, si muove come in un laboratorio di postproduzione (dove si correggono le immagini acquisite con mezzi fotografici e video). Prende il passato, lo smonta, lo rivolta come un guanto, lo ricrea come un corpo-Frankenstein dipingendo la sua teoria di virgole serpentine. Per Brown c’è solo la sua tecnica, l’idolatria tecnica che costruisce immagini al di là del loro significato (alcuni corpi privi di testa denotano appunto questa inutilità del senso).

Brown è un manierista non direttamente ascrivibile alla linea anacronistica o citazionista; l’inserimento delle sue opere nel museo Bardini, disseminato di sculture e dipinti che dal medioevo arrivano al tardobarocco, è dissonante, ma in definitiva artificioso. E anche Brown in questo modo incarna una vena neorococò come il suo illustre collega Hirst. La sua bravura tecnica produce opere nella categoria del Kitsch & Ugly chic: un cattivo gusto estetico tradotto in una eleganza del brutto.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: