lunedì 12 ottobre 2015
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Se il sorriso (specie se contagioso) fosse disciplina olimpica, beh allora quello della vulcanica ragazza di Calabria, la reggina Giusy Versace, se ne starebbe sempre lassù, sul gradino più alto del podio. «Finisco di mettere a “posto le gambe” e poi parliamo», dice sorridendo della sua second life. La prima, si è chiusa dieci anni fa (il 22 agosto 2005) nell’incidente automobilistico in cui ha perso le gambe, e ora cammina e gareggia – nei 100 e 200 metri – con le sue cheetah, le protesi simili a quelle di Oscar Pistorius. «Avevo 28 anni quando ho visto la morte in faccia e posso assicurare che non ha una bella faccia... Perciò da allora mi sono aggrappata con tutte le mie forze a questa cosa meravigliosa che è la vita». Un’esistenza in salita, portando addosso anche il peso di un cognome ingombrante, Versace (suo padre Alfredo è cugino degli stilisti Donatella, Santo e il compianto Gianni) che non l’ha affatto avvantaggiata. «Ho sempre lavorato nella moda a Milano, ma per aziende concorrenti a Versace, seguendo l’insegnamento di mio nonno: “Mai mischiare gli affetti con gli affari”. Così, quando qualcuno mi ha dato della “raccomandata” gli ho ricordato che il giorno che sono tornata in ufficio dopo l’incidente non ho trovato più nemmeno la mia scrivania... La gente non ha idea di quante porte in faccia mi sono beccata, ma ho sempre reagito, anche con le gomitate, perché perdono, ma non dimentico». Un’esistenza vissuta seguendo la filosofia positiva Con la testa e con il cuore si va ovunque (titolo della sua biografia, Mondadori) vivendo «sempre alla giornata», assaporando tutte le cose preziose, «specie le più piccole, tipo le polpette di melanzane che cucina mia madre», e soprattutto di corsa.Tra due settimane a Doha (Qatar) Giusy prenderà parte ai Mondiali paralimpici di atletica. Pronta?«Mi alleno come sempre, tre volte alla settimana a Vigevano, dove risiede il mio allenatore Andrea Giannini, qualche volta a Milano con gli amici della XXV Aprile. Giornata tipo? Sveglia alle 7, esco di casa alle 9 e dalle 10 all’ora di pranzo la passo in pista. Poi al pomeriggio lavoro in ufficio (consulente) e con mio fratello mi occupo della Onlus “Disabili no limits” (www.disabilinolimits.org)».Quella per l’atletica è una passione sbocciata nel 2010. Ma nella sua “prima vita” da normodotata che sport faceva?«Li seguivo tutti e non ne praticavo nessuno. Quando ho iniziato con l’atletica paralimpica ero la prima in Italia che correva senza entrambe le gambe, adesso siamo in quattro e io con i miei 38 anni sono diventata la “saggia” della squadra – sorride divertita –. Mi fa un enorme piacere aver fatto da apripista: le donne rispetto agli uomini vivono l’handicap con più sofferenza rimanendo spesso nell’ombra. Lo sport però aiuta tanto, ti dà la possibilità di alzare l’asticella sui limiti che spesso poniamo a noi stessi. Per esempio? Quando avevo le gambe non avrei mai pensato di correre e tanto meno di ballare».Già, stiamo parlando con la vincitrice dell’ultima edizione di “Ballando con le stelle”.«Un’esperienza fantastica, vissuta a pieno grazie alla più olimpica delle donne televisive, Milly Carlucci. Con il ballerino Raimondo Todaro non ci siamo più lasciati, anche perché senza la sua mano che mi guida non potrei danzare in giro per il mondo come facciamo. A “Ballando” comunque non ho vinto la sera della finale, ma l’istante in cui sono entrata in studio: il solo fatto di esserci era un messaggio per tutte quelle persone con disabilità a non arrendersi e a credere di poter fare ancora tanto nonostante il proprio handicap. La testa fa tutto, noi dobbiamo essere forti e bravi nel concentrarci sulle cose e le persone belle che ci circondano».Messaggi che arrivano dritti al cuore della gente che l’ha eletta a “idolo”.«È incredibile quante ragazzine si fanno accompagnare dai genitori per venire a seguire le mie gare... Non avrei mai immaginato di poter diventare un punto di riferimento, ma non avendo mai avuto idoli, non mi piace neppure esserlo, è una responsabilità eccessiva. Io ho le stesse fragilità di tutti. A volte sono intrattabile e lo sa bene quel “santo” del mio fidanzato, Antonio (catanese, anche lui ha perso un arto in un incidente, ndr). Da una settimana zoppico per una ferita alla gamba e il dolore mi sfinisce, mi fa arrabbiare... “Per guarire Giusy - mi ha detto il dottore - devi stare due giorni a riposo e con la “gamba staccata”. Ma come faccio con tutti gli impegni che ho?».L’ultimo impegno è quello inedito di conduttrice Rai, a “La Domenica Sportiva”.«Una sfida, l’ennesima che ho deciso di affrontare. Non sono una giornalista e tanto meno un’esperta di calcio e poi per me questo è un anno agonisticamente speciale, ma la fiducia del direttore di Rai Sport Carlo Paris che mi ha detto, “a noi non serve una giornalista, ma una atleta e una donna di valori” e l’alchimia che si è subito creata con il mio mentore e compagno in conduzione Alessandro Antinelli, mi hanno convinta che stavo facendo la cosa giusta».Lo pensa anche quando la punzecchiano per qualche svarione calcistico?«La scorsa settimana quando mi hanno chiesto cosa ne pensavo del fallo di rigore per la Juventus mi sono limitata e rispondere: intanto spiegatemi voi se uno si può appendere sul braccio di un altro... Io sono così, gioco con la mia spontaneità. Sono consapevole che il “malato di calcio” non ti perdona se per caso sbagli il nome di un giocatore, ma io mi difendo: mica è colpa mia se hanno tutti cognomi impronunciabili perché il 70% dei calciatori della Serie A sono stranieri.... Comunque tornando alla sfida, parlare anche solo un minuto ogni domenica di sport paralimpico o di altri sport cosìddetti “minori” lo considero una sfida vinta».Una galassia quella paralimpica che a volte è invisibile al mondo normodotato…«Sul piano della visibilità e della comunicazione si è fatto tantissimo in questi anni, poi certo mi cadono anche le braccia quando alle Paralimpiadi di Londra, senti il signor Paolo Villaggio che commenta: “Che tristezza, non c’è niente di divertente nel guardare alla tv quattro disabili in carrozzina che provano a fare canestro”. Ma io a lui, e a qualcun altro che la pensa così, ricordo che l’atleta paralimpico non è un comico che gioca per far ridere o divertire, ma si tratta di uomini e donne che gareggiano per dimostrare, prima di tutto a se stessi, che si può avere una vita migliore grazie allo sport».Pensa che il nostro sia un Paese razzista anche nei confronti della disabilità?«Il vero razzismo, anche quello nei confronti dei disabili, è frutto dell’ignoranza dell’adulto. I bambini, lo vedo, non hanno filtri, comprendono la disabilità e apprezzano lo sport paralimpico. Poi molto dipende anche da noi persone con handicap nel non cadere nel vittimismo. “Come sono triste... Perché non ho più le gambe?” me lo dico da sola in camera mia davanti allo specchio. Fuori invece porto il mio coraggio, la mia la mia fierezza. Ecco, il disabile deve entrare ogni mattina in un bar a testa alta e non vergognarsi mai, la vergogna lasciamola al mafioso...».Anche la fede la rende fiera e la fa “correre” fino a Lourdes.«Negli ultimi due anni il periodo delle gare è coinciso sempre con quello dei pellegrinaggi per Lourdes, ma con il cuore sono stata sempre con gli amici dell’Unitalsi - di cui sono volontaria - e a loro ho chiesto di accendere una candela per me e per tutte le persone che soffrono. Che cos’è per me la fede? L’accettazione di tutto. È stato proprio nella grotta a Lourdes che ho iniziato a guardare alle mie gambe non come a una “croce”, e lì ho compreso le infinite possibilità che mi offriva la mia nuova condizione».La sua condizione fisica è quella giusta per arrivare all’oro paralimpico di Rio 2016?«Il mio motto è: l’oggi è il dono più prezioso. Al mattino quando mi sveglio mi faccio il segno della croce, “metto le gambe” e comincio. Alla sera quando “stacco le gambe”, ancora segno della croce e ringrazio Dio per avercela fatta... L’oro lo porto dentro di me, io corro per lanciare un messaggio di speranza e regalare un sorriso, a tutti».
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