giovedì 23 maggio 2019
Un anno prima di morire il poeta omaggia il giovane allievo. Pochi ricordi da cui emerge un Ungaretti che nasconde ebrei a casa sua e alcune idee riguardo alla pedanteria di certa critica letteraria
Leone Piccioni con Giuseppe Ungaretti

Leone Piccioni con Giuseppe Ungaretti

COMMENTA E CONDIVIDI

Questo testo fu scritto da Giuseppe Ungaretti in occasione della presentazione a Roma del libro di Leone Piccioni Maestri e amici, pubblicato da Rizzoli nel 1969. È riemerso dall’Archivio centrale dello Stato di Roma, che conserva il Fondo Leone Piccioni con la sua biblioteca privata e 150 epistolari intrattenuti con i protagonisti della cultura italiana del ’900. Proprio all’Archivio, i prossimi 27 e 28 maggio, si svolge il convegno 'Leone Piccioni, una vita per la letteratura'. Alle relazioni accademiche si affiancheranno numerose testimonianze fra cui quelle di Aldo Lo Presti, Valerio Magrelli, Maria Pia Ammirati, Margaret Mazzantini, Emmanuele Milano, Renzo Arbore. Il 15 giugno si inaugura alla Fondazione Villa Bertelli di Forte dei Marmi la mostra Burri Morandi e altri amici. La passione per l’arte di Leone Piccioni, in cui verranno per la prima volta esposte le opere della sua collezione privata.

Gli anni che mi fai ricordare, Leone, i primi nostri anni d’un colloquio che non finirà mai, fraterno, in entrambi oltremodo proficuo, io un po’ come un padre, un po’ come un figlio te - che anni! i più nefandi, i più forsennatamente dissennati, e anche i più innocenti e i più eroici e gloriosi d’ogni tempo. Scoppiò un tripudio, fu entro 1’8 settembre del 1943. Verso sera, in piazza Remuria e a due passi dagli occhi vuoti del Colosseo in preda a carezze di luna, irrompenti, danzanti, in clamori scatenatisi finalmente dalla strozzata gola, dal vicino suo acquartieramento attorno alla Sinagoga, una folla accorreva di Ebrei. Era il giorno della firma dell’Armistizio, della separazione degli Italiani dai Nazisti; era stato deciso che da parte italiana da quel giorno la guerra con gli alleati finiva. I miei e io abitavamo in quella Piazza, un appartamento nella casa del compianto professor Margarucci, circondata da un immenso giardino. Ci era stato ceduto in parte dalla figlia di Tolstoi, Tatiana, che, gigantesca, nonostante l’età, passava la notte a trasferire i mobili da sola, tra un fracasso del diavolo, da un punto all’altro delle stanze. Purtroppo, e sarebbe stato un facile prevedere, la repressione da parte nazista non si fece aspettare, e fu naturalmente spietata. Gli Ebrei furono specialmente presi di mira, messi in vagoni bestiame blindati verso i forni crematori. Mia moglie, e avevamo una bambina, dette rifugio in casa nostra a un’Ebrea, che, trafelata, l’aveva invocata. Poi quella casa nostra, fu un viavai di insorti, e anche al telefono, l’ospite, e specialmente una sua amica, che, datasi alla macchia tra i rivoltosi, ogni tanto capitava da noi a riprendere fiato, non conoscevano prudenza. Venne il 4 giugno dell’anno seguente, venne il giorno della Liberazione. Il giardino dei Margarucci era gremito di partigiani esultanti, e, poco prima a due passi, c’era stato uno scontro con armati repubblichini, e il professor Margarucci ci aveva perso il giovanissimo figlio. Leone arriva a Roma poco dopo.

La sua famiglia e lui avevano seguito da Firenze il padre, l’avvocato Attilio che ci era venuto, accompagnando De Gasperi, per esserne il principale collaboratore nella ricostruzione, in un fortissimo partito, il Partito Popolare, che da allora assumerà come nome Democrazia Cristiana. Nei corridoi dell’Università, che era stata riaperta, dove si aggiravano studenti che sembravano reduci, dagli stracci che indossavano, da Corte vittorughiana dei miracoli, un po’ staccato dal gruppo, si avanzò verso di me un giovane alto, dai capelli nerissimi porgendomi una lettera. Era datata da Firenze, era di De Robertis, ne era stato a Firenze, il giovane, suo allievo. De Robertis desiderava che proseguisse con me gli studi. De Robertis era il critico che tutti ammirano. Non c’era una parola d’un testo che leggeva, della quale non sapesse scarcerarne tutta la luce, se ne conteneva. Sapeva dare il significato esatto, intero, d’un testo, attraverso questa minuta, ispiratissima e espertissima scavata indagine. Io cercavo invece - mi si perdoni se parlo, e anche troppo, di me - e chi sa che non ci sia arrivato, di fare sentire quanto un poeta - il Leopardi che leggevo, e anche De Robertis leggeva Leopardi - fosse, quando era grande poeta, profeta. Il dono di profezia più fa lungimirante un poeta, mi pareva, meglio gli fa intendere la funzione storica della poesia, quella particolare funzione di rivelazione del significato storico dei tempi che solo alla poesia spetta antivedere. Leone Piccioni discusse una tesi di laurea (ricordo bene) sulla progressione di significanza di varianti cui il Leopardi faceva ricorso per trovare alla fine il termine più arso e insieme più innocente, più carico di quella facoltà illuminante d’indeterminatezza che, secondo appunto la teoria leopardiana dell’eleganza, apre nei vocaboli l’infinito - il Leopardi, per essere esatti, diceva 'l’illusione d’infinito' nel quale il 'naufragar' gli era dolce. Leone fu poi libero docente e assegnato alla mia cattedra, e già, sino dal primo momento del suo arrivo a Roma, aveva dei legami con la Rai. Raccoglieva allora, credo, notizie di cronaca per essa, e, in verità non so quale incarico preciso avesse, ma so questo bene: qualunque cosa intraprenda Leone, l’eseguisce con tale scrupoloso spirito d’iniziativa che non si potrebbe meglio.

Lavora di furia, in un momento ha già tutto finito. Ma da uno scritto, tirato via sulle prime, questo impaziente quanto poi tornerà a lavorarci, quanto poi alla fine ne caverà un modello, e sempre, anche negli scritti lunghi, il prosatore risulterà alla fine di poche parole, di rigorosa misura, in un’ombra appena di cornice. Non è la critica d’un De Robertis, il maestro suo più caro, tutta tesa in cerca sino alla più minuscola prova, in ogni vocabolo del testo esaminato, della verità dei risultati d’una indagine, non d’altro stimolata se non della qualità formale, originale, oggettiva, in sé, di quel testo. È critica che d’un piglio globale e come premeditato riflesso d’una mira chiarificante prima di tutto il sommario di valore d’una lettura fatta, dà dell’intero svolgersi dell’operosità d’uno scrittore, nel complessivo suo sviluppo, i termini nei quali al lettore finisca coll’apparire, quello scrittore, in fattezze d’un ritratto. L’individualità personale dello scrittore non è mai persa di vista. O sbaglio? La prova più lampante che si potesse desiderare d’una critica ritratto l’offre il libro di cui oggi si festeggia l’uscita presso Rizzoli, il recente libro di Leone Piccioni Maestri e amici. Di più di cinquant’anni di lettere italiane contiene una guida sicura e risultati rivelatori. Grazie, caro Leone, irrequieto Leone, sempre alla fine, imparando a usare la pazienza, sai raggiungere indiscutibile forza di giudizio e di stile. Insomma a rifletterci, la critica di Leone Piccioni è piuttosto quella del ritrattista, a modo proprio s’intende, ma che potrebbe paragonarsi a quella famosa per merito di tanti, in Inghilterra; in Francia, la praticavano insuperabilmente dal 1888, data della sua fondazione, sino allo scoppio della prima guerra mondiali, i collaboratori della 'Mercure de France'.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: