domenica 16 gennaio 2022
A un anno dalla scomparsa del giurista, un libro riunisce gli oltre 200 articoli scritti per 'Avvenire'. il ricordo del suo successore come rettore della Lumsa, di Marco Tarquinio e della figlia Paola
Giuseppe Dalla Torre (1943-2020)

Giuseppe Dalla Torre (1943-2020) - Siciliani

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Le edizioni Studium mandano in questi giorni in libreria il volume Scritti su Avvenire. La laicità serena di un cattolico gentile (pagine 568, euro 45), che, con la cura di Geraldina Boni, riunisce i testi firmati da Giuseppe Dalla Torre per 'Avvenire'. Dalla Torre (1943-2020), docente di Diritto Canonico e rettore della Lumsa è stato presidente dell’Unione giuristi cattolici italiani e presidente del Tribunale della Città del Vaticano. Pubblichiamo le prefazioni del rettore della Lumsa Francesco Bonini, del direttore di Avvenire Marco Tarquinio e della figlia Paola Dalla Torre.

«L'ideario di un uomo vivo e libero»

Francesco Bonini

È un libro prezioso, la raccolta degli scritti giornalistici di Giuseppe Dalla Torre su 'Avvenire', coordinata da par suo da Geraldina Boni, con il contributo di tanti altri allievi di un maestro indiscusso del diritto. Perché rappresenta quasi un ideario, ovvero un abbecedario, sui temi più rilevanti sollevati volta per volta da una sempre fibrillante attualità. Un ideario, perché ci sono qui tutte le questioni rilevanti del dibattito culturale, istituzionale, politico e civile sul crinale della presenza dei cattolici e della Chiesa nella società italiana (un’Italia ben piantata nell’Europa e nel mondo contemporaneo) tra due secoli, la fine del ventesimo e i primi del ventunesimo. Su cui il nostro autore interveniva: non si sottraeva. E lo faceva bene. Perché Giuseppe Dalla Torre sapeva scrivere, argomentare, dialogare con un pubblico vasto, non solo con gli addetti ai lavori e gli accademici. Scriveva chiaro e amava ricordare che la passione 'giornalistica' lo aveva segnato fin da giovane: è una strada parallela e non derivata da quella accademica: andava fiero della sua tessera professionale. I suoi articoli sono pieni di dottrina, come si vede dalle pagine che ciascun allievo del Dalla Torre maestro del diritto e accademico dedica alle principali tematiche che emergono. Ma gli oltre duecento articoli, pubblicati tra il 1988 e il 2020 sono per tutti. Si possono leggere semplicemente come presa di parola serena, come un itinerario di un cattolico vivo e attento, all’evoluzione della Chiesa e a quella della società, ai conflitti, come alle soluzioni: un cattolico che viveva quella che è stata definita 'l’ermeneutica della riforma'. Un cattolico che non aveva complessi e poteva argomentare, e pertanto, come purtroppo può accadere, non peccava di omissione, e neppure si impancava come grillo parlante. Leggere Dalla Torre su 'Avvenire' era un punto di riferimento e, oggi, rileggerlo può continuare a esserlo, tanto ad intra, in una Chiesa sempre più articolata, come quella in Italia, tanto ad extra, nel dibattito pubblico, sempre segnato da un sottile crinale, da quel Tevere che si definiva, quasi fosse una fisarmonica idrica, ora più stretto, ora più largo.

Dalla cattedra della Lumsa, che affaccia appunto sul Tevere, e non a caso sulla riva destra, a un passo dal confine di Stato,Dalla Torre era nelle giuste condizioni per prendere la parola: un dialogo serio, perché fondato su una solida base culturale, un dialogo sereno, per la consapevolezza di spendersi, nella chiarezza, per il bene comune. Un dialogo ad ampio raggio, insomma, da proseguire con convinzione. Anche in un tempo diverso, accelerato, sincopato, che è il nostro tempo.


L'editoriale di quell'ultima volta per strada

Marco Tarquinio

L’ultimo editoriale di Giuseppe Dalla Torre per 'Avvenire' non è stato scritto, ma detto. Consegnato a me che in questi anni, tra il primo e il terzo decennio del XXI secolo, porto la responsabilità di dirigere il quotidiano nazionale di ispirazione cattolica al quale Dalla Torre, maestro di diritto e di umanità, ha affidato per decenni le sue illuminate riflessioni, le puntuali annotazioni, le garbate polemiche e le fondate perorazioni. È accaduto di mattina, ai primi di ottobre del 2020. Ci siamo trovati l’uno di fronte all’altro per strada nei pressi della romana piazza dei Quiriti. Un incontro casuale e benedetto, inaugurato da un sorriso dietro la mascherina anti-coronavirus. Un’occasione colta al volo da entrambi, come ci accadeva di quando in quando, in ricercati vis-à-vis o al telefono, continuando a tessere un dialogo disteso e ampio, utile a me e anche a lui per mettere a fuoco questioni di stretta attualità, preoccupazioni comuni, differenti percezioni e, ben rare volte, diversi avvisi. Per giungere infine e sempre a speranze e impegni condivisi, che il suo saggio parere rendeva più convinti e saldi. Quella volta, quell’ultima volta, l’argomento di quaranta minuti di scambio di opinioni e d’informazioni era stato la dura stagione pandemica scatenata dal Covid- 19, coi suoi costi terribili e amari, i comprensibili disorientamenti e il riorientamento necessario nelle vite di persone e comunità. Si stava alzando, ancora a malapena avvertita, la 'seconda ondata' del morbo, che anche al Professore sarebbe stata purtroppo fatale. Il tempo della nostra soda chiacchierata scivolò via senza che ce ne rendessimo conto, ritti in piedi sul selciato. Non ce ne accorgemmo, e non ci passò neppure per la mente di approfittare di una delle caffetterie nei pressi… Continuo a ripensare con commozione alla sua informalissima e sempre elegante generosità di tempo e di amicizia, e a quella di quella mattina in particolare. È stata come il suggello, imprevisto e imprevedibile, a una lunga storia di fedeltà spirituale e di militanza intellettuale e civile che si erano potute esprimere anche attraverso le pagine del giornale milanese fondato da san Paolo VI.

Appena un paio di settimane prima, con Giuseppe – ci chiamavamo per nome, per inappellabile decisione sua, visto che io, per comprensibile soggezione, stentavo a farlo… – avevamo concordato e destinato ad Agorà, la sezione culturale di 'Avvenire', un’analisi alta e stimolante a centocinquant’anni dal 20 settembre 1870, giorno fatidico e fatale che aveva segnato la fine aspra e provvidenziale della più che millenaria storia dello Stato Pontificio. È bene che di tutto questo – dell’organica memoria di tutto questo – resti organizzata traccia. Ed è bene che su tutto questo si torni e si ritorni e si ragioni. È bene che dalla serenità dello 'stile Dalla Torre', tanto quanto dal suo accurato e limpido offrire al lettore sempre e solo concreta sostanza, si prenda fattivo esempio. Ed è per me motivo di gioia, e un po’ di orgoglio, che lo si possa fare tenendo in mano, leggendo e consultando il bel libro che queste mie rapide e sentite righe introducono.

Sono grato, a uno a uno, a coloro che hanno partecipato alla costruzione di quest’opera che si propone come personale e corale, un tratto che non stupirà chi ha dimestichezza con la vita cristiana e l’umanesimo che da essa è germinato e germina e con l’adesione profonda e creativa di Giuseppe Dalla Torre a questa duplice modalità, nella Chiesa, nell’Accademia, nel pubblico dibattito sui fatti e tra le opinioni. Ma un ringraziamento speciale lo dedico soprattutto per Geraldina Boni, che con rigore e appassionata intelligenza ha curato la raccolta e la valorizzazione dei testi usciti sulle nostre pagine tra marzo 1988 e settembre 2020. E l’ultimo grazie – forte come l’abbraccio che non gli ho mai saputo dare, se non con le parole, e che ora gli dedico a nome di tutti i direttori di 'Avvenire' con cui ha collaborato – è per lui. Per Giuseppe Dalla Torre, il maestro e amico che Dio ci ha fatto incontrare anche sulla viva strada di città e sull’onesta cattedra di carta che un buon giornale può riuscire a essere.

«Nella sua charezza una serena e lucida lettura delle cose»

Paola Dalla Torre

Tra i primi ricordi che ho di mio padre c’è l’immagine di lui, seduto alla scrivania, davanti a ciò che, allora, mi sembrava un enorme mostro meccanico. Era una macchina per scrivere, naturalmente, ma ai miei occhi di bambina curiosa era più simile a una strana creatura venuta da chissà dove, che emetteva stravaganti sibili ogni volta che veniva toccata. Una creatura che, però, il mio papà sapeva domare e anzi addome-sticare, rendendola docile e pronta ai suoi comandi. Mi sedevo, perciò, senza paura sulle sue ginocchia e osservavo incantata la magia di quella strana danza che compiva con le dita e che creava da un foglio vuoto un foglio pieno di parole e di storie. Storie che nostro padre raccontava a mia sorella e a me, sempre, fin da quando ne ho ricordo. Storie che non erano soltanto fiabe e racconti da bambine, ma anche storie da «grandi», come dicevamo Giovanna e io, orgogliose di essere state messe fin da subito al corrente, noi così piccine, di pensieri che non appartenevano alla nostra età. Questo perché mio padre, l’ho scoperto andando avanti nel tempo, tra le sue tante doti, ne aveva una bellissima: la definirei la semplicità della complessità e cioè la capacità di rendere comprensibile, intellegibile, alla portata di tutti, ogni tipo di discorso o pensiero, per quanto complesso fosse e per quanto specialistico sembrasse. Mio padre riusciva a presentare in maniera chiara e soprattutto attrattiva qualsiasi argomento («addirittura il Diritto Canonico!», lo prendevo in giro divertita), sia nella pagina scritta che nell’eloquio orale.

La sua dote non era semplicemente, infatti, quella di facilitare la comprensione, senza che questo significasse banalizzarla, ma anche quella di affrontare ogni argomento facendolo diventare interessante e centrale per le vite di ognuno. Rendeva il pensiero vivo, in un certo modo, lo incardinava nelle esistenze di ciascuno. Era un comunicatore nato, come qualcuno gli aveva detto, complimento di cui andava giustamente molto fiero, e il suo pensiero retto, logico, razionale e sensibile insieme, di fede, ma non confessionale, guidava sempre il timone dei suoi pensieri. Era la barra che gli permetteva di navigare diritto per le acque, agitate e non, che di volta in volta si trovava a solcare. Era il pensiero semplice del giusto, di chi non ha bisogno di chissà quali parole altisonanti per spiegare, raccontare e analizzare un argomento. Naturalmente un pensiero che si era formato nel tempo, stratificato grazie alla famiglia, agli studi, alle frequentazioni, che veniva continuamente rinegoziato sulla base di nuovi approfondimenti e che conosceva, naturalmente, il sano esercizio del dubbio. E che sapeva anche stupirti, dimostrando di saper andare anche contro-corrente o per lo meno di saper pensare in maniera diversa rispetto a quella che ci si sarebbe aspettata da lui. Da bambine, papà era il nostro affabulatore di storie e parole, ci faceva ridere, ci faceva commuovere e, ancora non lo sapevamo, ci stava insegnando come guardare al mondo, all’esistenza, al senso da dare alle nostre esistenze. Questo non significa che ci stesse dando delle risposte già preconfezionate su come comportarci o cosa pensare, bensì ci stava trasmettendo la sua curiosità verso il mondo, la sua costante e insaziabile ricerca della conoscenza, ci stava offrendo gli strumenti con i quali indagare quel mondo e cercare le nostre risposte. Ci faceva porre le giuste domande.

Da adulta tutto questo è divenuto sempre più chiaro e anche se non mi sedevo più sulle sue ginocchia e il mostro meccanico che immaginavo da piccola si era ormai rivelato un ben più banale computer, l’incanto di ascoltare o leggere le parole di mio padre è rimasto lo stesso. E anzi si è intensificato: gli ultimi anni insieme, infatti, avevamo l’abitudine di chiamarci a fine giornata e io stimolavo papà con gli argomenti più disparati, spesso cercando di metterlo in difficoltà o convinta di toccare un argomento 'scomodo'. Ma lui riusciva sempre a stupirmi per la semplice, che non vuol dire semplicistica, facilità con cui riusciva ad analizzare e spiegare ogni cosa, per l’equilibrio che ha sempre mostrato nei suoi giudizi, per la misura nelle valutazioni, per la saggezza di non imporre un punto di vista, ma di mostrarlo, anche con convinzione, invitandoti a ragionare e a confrontarti.

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