venerdì 18 ottobre 2019
Due mostre distinte a Palazzo Ducale e Palazzo Te celebrano l’erede di Raffaello e l’interprete, attraverso un’arte totale, dei desideri dei Gonzaga
Giulio Romano, la volta della Sala dei Giganti, in Palazzo Te a Mantova (WikiCommons)

Giulio Romano, la volta della Sala dei Giganti, in Palazzo Te a Mantova (WikiCommons)

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Non c’è una ragione particolare, diciamo un anniversario o una circostanza storica, che giustifichi le celebrazioni che Mantova dedica a Giulio Pippi de’ Jannuzzi, a tutti noto come Giulio Romano. Non si deve certo aspettare un anniversario per occuparsi di un artista. Il fatto è che la grande riscoperta di Giulio risale a trent’anni fa, quando nella stessa Mantova, a Palazzo Te, si tenne una retrospettiva accompagnata da un monumentale catalogo di quasi seicento pagine. Ma neanche allora ci si attaccò a un anniversario, poiché il 1989 era una data prossima ai cinquecento anni della nascita, ma solo se si sta a quanto scrive Vasari, che peraltro lo conosceva bene e dice che Giulio morì cinquantaquattrenne, il che fermerebbe la data al 1492, mentre l’atto di morte la sposterebbe al 1499, poiché scrive che Giulio morì quarantaseienne. In ogni caso, anche adesso nessuna occasione di anniversario tondo, tanto più che le mostre sono due, con due comitati scientifici e due diversissimi cataloghi. Cose che succedono forse solo in Italia.

Entrambe le esposizioni intendono ricollegarsi a quella dell’89 sviluppando temi rimasti all’epoca forse meno indagati anche sul piano della saggistica storico-critica: una più filologica, con il corpus di disegni del Louvre e corredo di altri fogli di prestigiose musei stranieri per documentare studi e riferimenti delle opere che Giulio eseguì a Palazzo Ducale; l’altra tematica e di argomento pruriginoso, incentrata sull’erotismo che, per esempio, intrecciò l’arte di Giulio e dell’Aretino nella serie dei Modi, sorta di kamasutra visivo-poetico dell’epoca.

Ho sempre attribuito a Giulio Romano una preminenza d’architetto, che si sposa bene con la pittura ad affresco (in fondo che cos’è la caduta dei Giganti se non una grande scenografia architettonica che enfatizza le figure con fare grottesco e tuttavia in questa enfasi esibisce proprio un sovradimensionamento che è esso stesso architettura?). Grande disegnatore, il suo tratto esce con forza dinamica proprio là dove l’immagine segue meno la paratassi antichistica di derivazione romana, e con un guizzo o un’ombra sa mettere in movimento ciò che il suo stile tende a fermare nell’immagine: disegni come quello di Papa Silvestro I portato sulla sedia, l’abbozzo per Nettuno che rapisce Anfitrite, il terrore degli dèi che assistono alla caduta dei Giganti, la drammatica tensione che quasi ironizza sulla Crocifissione di Cristo sfumando la scena in retorica compositiva, ma anche un semplice studio come quello della Donna che solleva un tendaggio, ecco che questo breve campionario può dare veramente il segno della versatilità espressiva di Giulio. Il quale forse si fa pregare un po’ troppo dal Gonzaga per andare a Mantova – prima volle portare a conclusione i cantieri romani che Raffaello gli lasciò in eredità morendo prematuramente – ma poi nel 1524 raccoglie la sfida di dare ai sovrani lombardi quella prova di Grande Stile che loro cercavano.

E Vasari lo riassume con «nuova e stravagante maniera», espressione che dà il titolo alla mostra di Palazzo Ducale curata da Peter Assmann con un pool di specialisti (catalogo Skira). Una maniera che poggia però su quanto Raffaello gli aveva trasmesso riguardo agli antichi e alla bellezza classica. Ma quella “maniera” comprende anche lo straordinario concetto architettonico di Palazzo Te che si riflette sulle facciate solide, plasticamente ideate (forse guardava a Michelangelo, che tuttavia aveva una mente assai più lirica), ma già con una inclinazione a tradurre il grande in uno stile sopra le righe, lo stesso che si ritrova nella congestione di certe immagini che sono palesemente un gioco con gli dèi: Psiche che riceve da Proserpina il vaso contenente un po’ della sua bellezza è una scena dal tono drammatico inverosimile; così il combattimento di tritoni e mostri è una zuffa indiavolata che tuttavia sviluppandosi sull’orizzontale sfuma il valore di uno scontro di forze (come nella Centauromachia michelangiolesca o nel cartone della Battaglia di Anghiari di Leonardo).

Sono ancora gli schemi architettonici a guidare la composizione di Giulio in queste scene e quasi sempre la scelta mette in secondo piano la valenza narrativa del disegno. Ma Giulio è davvero l’erede della mentalità che apprese nella bottega- azienda di Raffaello e lo si capisce nella perizia e forza che sa infondere al suo segno quando realizza forme decorative: è il caso dei due splendidi disegni di bacili provenienti dal British Museum, i cui soggetti sono anatre, pesci, rane e canne palustri.

Lo stile fastoso e da grandeur è ciò che i Gonzaga chiedono a Giulio e lui sia che realizzi architetture sia che si dedichi a decorarle con affreschi e altri elementi artistici, tende all’opera d’arte totale. Naturalmente, è artista a trecentossessanta gradi e lo dimostra nei sei cavalli di razza nel salone di Palazzo Te, che certamente avranno fatto invidia a Géricault se mai li vide, una prova pittorica che sfiora il realismo magico senza perdere valore naturalistico.

La mostra allestita a Palazzo Te ammicca al grande pubblico titolando su “arte e desiderio” (catalogo Electa, a cura di B. Furlotti, G. Rebecchini e L. Wolk-Simon). I curatori intendono mostrare i legami fra erotismo classico e l’eros cinquecentesco di cui Giulio fu un protagonista artistico. Ovviamente uno spunto è dato dai Modi che Giulio disegna per Marcantonio Raimondi. L’erotismo nella sua concezione si unisce però al grottesco e al riso. E questo è molto moderno. Per cui, come si sostiene in catalogo, tutto Palazzo Te è concepito come macchina del desiderio. Giulio impiegò più di dieci anni per realizzarlo, in costante dialogo con Federico II Gonzaga.

Sarebbe, secondo Stefano Baia Curioni, un luogo esemplare di quella crisi dell’ecumene cristiana, che genera guerre europee di lungo periodo, e da questa flagellazione riporta alla luce le concezioni del paganesimo. A Mantova Giulio ci costruisce sopra un intero palazzo, ma è la cultura dell’epoca che recupera con libertà d’immagine le nudità classiche, la Venere pudica per esempio, tuttavia enfatizzando l’elemento erotico (che nell’antichità aveva valenze legate ai miti della fecondità) come prova di potenza e di dispendio vitale. In mostra troviamo il dipinto dei Due amanti, dove l’allusione all’atto sessuale e al voyeurismo è palese, mentre è meno esplicita nell’affresco di Amore e Psiche nella sala di Palazzo Te, e a corredo troviamo opere come la Danae di Correggio, varie sculture classiche e incisioni d’epoca. Il mito del corpo e della sua potenza erotica è certamente un tema centrale nella cultura del Rinascimento, non c’è bisogno di ricordarlo: Machiavelli nel 1515 in una lettera a Francesco Vettori così la giustificava scrivendo che se a qualcuno può far sembrare gli uomini di quell’epoca «leggieri, incostanti, lascivi, volti a cose vane» in realtà «a me pare laudabile, perché noi imitiamo la natura, che è varia».

L’erotismo dell’epoca è appunto rappresentazione di una volontà di potenza che imita la natura – ma la nudità può essere assunta anche in funzione di esemplarità della bellezza prima della caduta (Michelangelo e i nudi incompresi della Sistina, per esempio) – oppure raffigura un diletto dei sensi e risposta alle esigenze di gratificazione del corpo, che indicano una nuova libertà rispetto alla cultura ereditata.

Questa mostra di Palazzo Te, a dire il vero, non entra molto in queste distinzioni cedendo a una facile rappresentazione dell’erotismo giuliano come oscillazione fra etica naturalistica e grottesco, ma in Giulio, come in una vasta letteratura dell’epoca, il riso segnala anche il lato puerile della sessualità: che può essere il contrappunto della puerilità di un certo esercizio del potere.

Mantova, Palazzo Ducale e Palazzo Te
GIULIO ROMANO
Fino al 6 gennaio

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