sabato 23 dicembre 2023
Il ritorno del sacro nell’età postsecolare non ha riempito le chiese ma i luoghi dell’arte: un saggio di Giuliano Zanchi esamina come il culto della bellezza ha assunto una dimensione "sacramentale"
La sala del Tondo Doni, negli Uffizi

La sala del Tondo Doni, negli Uffizi - Juli Kosolapova / Unsplash (cropped)

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Quando abbiamo cominciato a definire i musei “cattedrali”? E quando abbiamo iniziato a considerare le cattedrali come musei, trasformazione sancita definitivamente dall’introduzione del biglietto di ingresso? Cosa diciamo davvero quando ripetiamo che “la bellezza salverà il mondo” – forse dimenticando che il mondo è già stato salvato? E quando proviamo a “contemplare” un’opera d’arte, il capolavoro, che rivelazione attendiamo? Non sono domande capziose, vanno anzi a toccare la nervatura di una larga parte dei discorsi comuni sull’arte, anche in ambito ecclesiale. Se pure “bellezza” è la parola iniziale, come dice von Balthasar, ha finito poi per occupare l’intero vocabolario. Questa fiducia soteriologica nel fenomeno estetico non è un processo del tutto innocuo per il cristianesimo, il quale sembra ignorare il proporsi dell’arte come sostitutivo della religione. Un surrogato perfetto in quanto privo di dogmi o di precetti domenicali – che non siano ovviamente la visita al museo.

A esaminare storia e dinamiche, contesto e conseguenze di tutto questo provvede Giuliano Zanchi nel volume Lo spirituale dell’arte. Estetica e società nell’epoca postsecolare (Editrice Bibliografica, pagine 224, euro 23). È stato più volte osservato che il cosiddetto “ritorno del sacro” seguito alla secolarizzazione non riguarda il religioso ma lo spirituale, forma fluida e poco irreggimentabile, che nella veste della devozione aveva alimentato, e in parte ancora alimenta, il primo. La tesi del libro è che «la cultura artistica sia oggi lo spazio simbolico di espressione e di esperienza di quella dimensione che si può chiamare il tratto di sensibilità spirituale tipico della condizione umana. In particolare, quell’ambito della cultura umanistica che custodisce, promuove, divulga e diffonde la rinnovata aura della sua tradizione storica, singolarmente incarnata nel primato iconico del grande capolavoro». E così «l’arte come pratica dello spirituale più che nelle chiese ha oggi i suoi luoghi di vita nei musei e nelle mostre, e non necessariamente perché a soggetto religioso».

Un patrimonio sacralizzato in sé, come icona e come feticcio ma anche come reliquia, a cui si accede attraverso visite guidate come esercizi spirituali. La copertina del libro presenta l’immagine di un allestimento di un’opera d’arte, la Madonna della Misericordia di Piero della Francesca, che negli occhi di Zanchi si sovrappone immediatamente all’iconografia della deposizione: «Un famoso capolavoro della storia dell’arte era trattato come un tempo era stato tipico – e in una certa misura lo è ancora – dell’esperienza esplicitamente religiosa». È lo sguardo occidentale, allenato nei secoli a riconoscere e a modellare forme e sensazioni del sacro divenute serbatoio di un inconscio collettivo comune a credenti e no. Il sacro, liberato dai vincoli della religione, riemerge e si diffonde come desiderio e nostalgia, anche di una dimensione rituale. «Un’esposizione – osserva Zanchi – sembra riattivare quei tratti della manifestazione simbolica che nella cultura religiosa erano riservati al sacramento. L’arte insomma sembra essere divenuta lo spazio di una socializzazione dello spirituale nell’epoca del disincanto del mondo e dell’estetizzazione della realtà, condizioni di sfondo del tempo che attualmente viviamo».

Non solo il sacro sopravvive nell’immagine, come se questa fosse schillerianamente «il rifugio degli dèi», ma Zanchi insiste sulla “sacramentalizzazione” dell’esperienza artistica, per altro come fenomeno di ritorno: «Nell’antichità cristiana l’icona era stata elevata alla dignità mediatrice del sacramento, oggetto di ostensione e venerazione, e quando dopo la Controriforma una tale elevazione dovette essere moderata in favore dell’eucaristia, unico vero sacramento della presenza reale, questa assunse forme di ostentazione pubblica che erano state tipiche dell’immagine: ancora oggi la presentazione al culto dell’ostia consacrata si chiama esposizione. Rispettivamente, la vecchia icona divenuta dipinto sacro e opera d’arte, destinata all’illustrazione del dogma e poi emancipata come finestra sul mondo terreno, nell’epoca della ritirata sociale del sacramento religioso viene nuovamente elevata alla funzione di mediatrice del senso, assumendo la dignità e le forme che sono state quelle del sacramento religioso». In questo modo tutto ciò che circonda l’opera d’arte si riorienta secondo le strutture e le strategie del religioso e del liturgico: la diagnosi di Zanchi è che «i grandi eventi espositivi abbiano ereditato la funzione sociale e antropologica della vecchia ostensione sacra e dell’antico pellegrinaggio religioso, laicizzato nel culto dell’arte».

È però interessante notare che nell’icona come nell’immagine devozionale, sua erede storica (e quindi, in modo solo apparentemente paradossale, in quella frastornante risurrezione dell’immagine acheropita che è l’immagine devozionale industriale, del tutto priva di autorialità e nostalgica dell’archetipo) il valore artistico è ininfluente rispetto al suo funzionamento come schermo del divino. Il valore del dispositivo, infatti, sta nel suo essere “emanazione diretta del referente”, riprendendo con Zanchi Roland Barthes sulla fotografia. Nella storia cristiana la bellezza riguardava piuttosto l’involucro – pensiamo ai santuari costruiti attorno a un lacerto di povera pittura murale – la glorificazione dell’oggetto di fede. È solo con la nascita dell’estetica tra Lumi e romanticismo, e in sostanza con il nocciolo della modernità, che il bello acquista una dimensione assoluta e l’arte da strumento conquista lentamente il centro. La bellezza oggi dilaga, diluendosi. Ma Paolo VI, nel suo discorso agli artisti del 1964, pronuncia il termine solo due volte. Papa Francesco, nel suo recente incontro con gli artisti nella Cappella Sistina, ha messo in guardia da una “bellezza cosmetica” che, invece di rivelare, maschera. Eppure, una ampia fetta della cultura cattolica, in sintonia inconsapevole con la stagione storica, resta soggetta a un cono prospettico e retorico che si affida senza nutrire dubbi a una narrazione dell’arte come luogo eminente della contemplazione, della rivelazione (divina, se possibile), del superamento. La bellezza appare dunque «un principio metafisico col potere di trasfigurare la realtà», scrive Zanchi. E una cura misterica e oracolare a questo tempo, con chiari segni di condividere un altro fenomeno del postsecolarismo: il ritorno della gnosi.

Si tratta, in sostanza, di adottare uno sguardo meno ingenuo sul discorso estetico, recuperandone tutta la complessità: la bellezza, osserva Zanchi, continua a restare un’«esperienza fondamentale» della realtà. E forse, aggiungiamo, soprattutto di un riconoscimento della nudità del reale e di noi stessi prima ancora che di un altrove. Ma è necessario acquisire la consapevolezza che il museo, con la sua proliferazione, è diventato la forma principe di rapporto con il mondo, al punto che si può forse parlare ormai di “età museale”. E che l’arte, nelle sue tante dimensioni, oggi è «il rifugio nel quale possono ritrovarsi a casa gli dèi, la devozione collettiva in cui riescono a essere praticati antichi slanci religiosi, il luogo di apparizione in cui può ancora agire il potere simbolico dell’immagine e la dimensione nella quale la bellezza si sottrae alla sua mistificazione cosmetica».

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