domenica 3 maggio 2009
Al seguito del carrozzone, fin dalla prima edizione del 1909 i letterati italiani hanno tratto ispirazione dalle gesta dei ciclisti per redigere coralmente il romanzo dell’epica popolare.
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La bicicletta, agli inizi del secolo scorso, ha significato qualcosa di più di un semplice mezzo di trasporto, bensì il simbolo della conquista di un pezzo importante del futuro. E non è forse un caso che l’avanguardistico movimento futurista abbia preso il via nel febbraio del 1909, lo stesso anno della prima edizione del Giro d’Italia (partito il 13 maggio). Il futurismo e tutti gli uomini del team marinettiano, non potevano certo rimanere insensibili a quella “macchina” su due ruote che preconizzava orizzonti veloci. «La bicicletta è così. La sua velocità rivaleggia con quella del vapore, mentre la sua fatica resta un giuoco: è piccola, lieve, muta», aveva già scritto, nel 1902, Alfredo Oriani, aprendo la strada a tutta una serie di letterati amanti del pedale, come Salgari, la Serao, Scarfoglio, Pascoli, Gozzano, Tozzi e Serra. Sono tanti, molti di loro non amano neppure stare in gruppo e non basterebbe la tappa di una pagina per elencarli al completo. Basti sapere che ognuno dei magnifici sette “campioni” del nostro Giro letterario ideale rappresentano al meglio tutti coloro che hanno testimoniato, con un capitolo personale, la lode e la passione per la bicicletta che, dopo cento anni di Giro d’Italia, ha svelato il suo romanzo popolare. Il romanzo di questo Paese, davvero si potrebbe leggere tutto d’un fiato dentro a questi cento anni che raccontano di partenze e arrivi del Giro. Un secolo di storie, di angeli dalla faccia sporca di fango, passaggi a livello che bloccavano l’inseguimento del gruppo, la fuga solitaria del campione, del “Diavolo rosso” Gerbi. A chiamarlo così era stato un parroco di paese quando sfrecciò nel bel mezzo di una processione seminando il panico. La corsa inarrestabile di Gerbi si chiuse a 47 anni, al Giro d’Italia del ’32, quello appunto, raccontato dalla penna sferzante di Achille Campanile. «Diavolo rosso dimentica la strada, vieni con noi a bere un’aranciata», canta Paolo Conte, ultimo grande narratore di questo romanzo in rosa, per quella maglia leggendaria che fece la sua apparizione nel 1931, emblema del “primo” in classifica. Il primo assoluto, nel 1909, fu Luigi Ganna. Ogni Giro porta il nome del suo eroe, tranne quello del ’12 che incoronava solo la squadra vincente. Trionfò l’Atala, ma come un romanzo di Dumas permise ai cantori del tempo di celebrare i “tre moschettieri”, Galetti, Pavesi e Micheletto, più il quarto, Ganna, costretto al ritiro. Storie di ritiri dunque, di cadute, di cotte in salita, di copertoni attorcigliati sulle spalle quando ancora non c’erano le ammiraglie a soccorrere chi aveva forato, lassù, in cima al Pordoi. Storie di maglie sgargianti e colorate della carovana ed episodi a tinte fosche, quando all’inseguimento dell’amico Girardengo andava il temuto bandito Sante Pollastro. Come i personaggi omerici ognuno ha il suo epiteto e ogni piccolo eroe esemplare della bicicletta diventa il genius loci del proprio campanile. Nei paesi, allora i ragazzi si facevano chiamare “il Binda”, credendo di correre come quel giovane suonatore di cornetta della banda di Cittiglio che prima di vincere cinque Giri (come lui solo Coppi e Merckx) sognava di diventare Learco Guerra, alias la “Locomotiva umana”. «Da ragazzo sentivo parlare tanto di Ganna e di Guerra, ma da Cittiglio non passavano mai e allora bisognava lavorare d’immaginazione...», raccontò Binda a Orio Vergani. fu il potere della fantasia e soprattutto la voglia di emancipazione a spingere Alfonsina Morini, maritata in Strada, ad iscriversi al Giro del 1924. È rimasta ancora l’unica donna e lo fece quattro anni prima che le Olimpiadi di Los Angeles aprissero allo sport femminile. Una rivoluzione pacifica, uno strappo alla regola, come quella dell’autarchico della Garbatella, Marcello Spadolini che senza squadra, da solo, sfidava tutti al Giro del ’46. Il Giro della rinascita, per un Paese che contava ancora i caduti e da sotto le macerie rispolverava una radio che finalmente non si sintonizzava più sui bollettini di guerra. La famiglia ascoltava il Giringiro di Silvio Gigli che inventò la maglia nera quella dell’ultimo arrivato, Luigi Malabrocca. Nel romanzo popolare del Giro, i primi e gli ultimi, gregari e campioni, hanno lo stesso spazio letterario anche se con Fausto Coppi e Gino Bartali dalla letteratura si passò al traguardo volante dell’epica per eternare una generazione che aveva combattuto e ricostruito, mantenendo intatta la dignità nel darsi una mano e passarsi fraternamente la borraccia. Dopo di loro la corsa sarebbe diventata sempre più veloce, frenetica, con meno spazio per la letteratura e fin troppo per quella cronaca cannibale, fatta di Processi alle tappe assai distanti da quelli televisivi di Sergio Zavoli. Una corsa avvelenata da business, farmaci e sospetti che hanno sbiadito la storia, ma non sono riusciti a intaccare il mito che al traguardo si ripresenta puntuale dopo cento anni e con la voce del Ginettaccio ricorda all’Italia intera: «L’è tutto da rifare».
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