lunedì 12 maggio 2014
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La cronaca sportiva ha rischiato di dover lasciare spazio alla cronaca nera. In Irlanda una bomba poteva far saltare il Giro d’Italia. E non solo metaforicamente. Un ordigno con 22 chili di esplosivo e non un intruglio a base di anfetamine e stenamine di fantozziana memoria. Domenica a Dublino, poco prima dell’arrivo della corsa, gli artificieri hanno disinnescato l’ordigno e arrestato un attivista di una formazione paramilitare dell’Ira. Non si conosce ancora l’obiettivo dell’attentato ma fra le ipotesi c’è anche la corsa che ieri ha fatto ritorno in Italia. Dagli 11 gradi dell’Irlanda ai 23 della Puglia, un balzo geografico e climatico che rischia di restare indigesto a qualcuno, anche se il ritorno in Italia è decisamente soft: appena 112 chilometri completamente pianeggianti, praticamente una scampagnata con volata finale. E vincitore annunciato. Perché gli sprint di questo Giro hanno un dittatore, generoso solo nel regalare spettacolo ai tifosi. Ai rivali Marce Kittel non concede niente se non l’illusione di poterlo battere, almeno fino a cento metri dal traguardo, quando è ancora intrecciato nelle retrovie. A quel punto gira la manopola dell’acceleratore e salta gli avversari a doppia velocità, come ha fatto sia a Belfast che a Dublino. Imbarazzante la sua superiorità, deprimente per i rivali che si ritrovano a lottare per il secondo posto. Il tedesco Kittel in volata è nettamente più forte, un panzer che abbatte tutti, anche se stesso, come ha fatto domenica: tagliato il traguardo dopo una rimonta prodigiosa si è accasciato a terra. Stremato. Un gesto “umano” che si vede sempre più spesso in questi ultimi tempi. Lo scorso anno al Giro avevamo visto stesi a terra, esausti dopo la vittoria, prima Degenkolb a Matera, poi, Cavendish e, infine, anche Visconti sul Galibier. E dopo la vittoria alla Roubaix non riusciva a rialzarsi nemmeno un colosso come Cancellara. Segno evidente che i corridori arrivano al traguardo stremati dopo aver attinto a tutte le energie. Le loro energie. Perché se nelle vene, oltre al sangue, circolasse qualche additivo chimico appena scesi di bici i corridori raggiungerebbero di corsa il podio. Come talvolta si vedeva fare in passato. Chissà, forse ora le bombe in circolazione sono davvero solo quelle dei terroristi. Un auspicio da parte dei tanti appassionati ancora innamorati di questo sport a dispetto dei continui deragliamenti in farmacia. Del resto il ciclismo si sta impegnando da tempo in un’opera di pulizia dai troppi stregoni che circolavano nell’ambiente. E i risultati si vedono anche nelle medie orarie. Certo, sicuramente qualche mela marcia in giro c’è ancora, la stupidità è difficile da debellare, ma stanno diventando delle eccezioni. Merito dei controlli sempre più rigorosi e della severità delle punizioni: nel ciclismo non c’è l’indulgenza alla quale sono abituati gli altri sport. Qui chi sbaglia paga davvero. Il ciclismo, così, è tornato ad essere lo sport della fatica, dove i risultati sono solo frutto di sacrifici. E i corridori dovrebbero tornare ad essere degli esempi per i ragazzi. L’aspetto umano di questo sport, alla ricerca di una nuova identità, lo ha colto e sintetizzato monsignor Luigi Martella, vescovo della Diocesi di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo, Terlizzi, nel messaggio augurale per l’arrivo della corsa rosa: “I corridori, a quel livello, sono autentici campioni, ma per ottenere certi risultati, oltre ad avere doti naturali proprie, devono costantemente sottoporsi ad allenamenti molto impegnativi. Queste sono considerazioni che non sfuggono alle persone sensibili e attente. Attraverso tali pensieri si deduce un grande insegnamento di carattere più generale: senza sacrificio e impegno non si può andare avanti nella vita”.
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