lunedì 30 aprile 2012
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Clarinettista jazz. Così recita il biglietto da visita di Renzo Arbore. «È quello che vorrei fare da grande» dice  con la consueta verve l’uomo che con l’"altra musica", e non solo, ha cambiato la storia di radio e tv. Affrontate come strumenti musicali e con la stessa capacità di improvvisare affinata fin da giovanissimo sul suo clarinetto. «A dire il vero ero deciso a suonare la tromba – racconta – ma il mio amico Franco Tolomei, che suonava il clarinetto, mi propose di scambiare gli strumenti. E così lui divenne un grande trombettista». E se parli con lui di jazz, specie in vista della Giornata Unesco che domani lo celebrerà in tutto il mondo, diventa un fiume in piena.Arbore, partiamo con la classica domanda da cento milioni: il jazz che cos’è?È davvero la domanda più difficile. Nessuno mai dei grandi jazzisti lo ha saputo definire. Louis Armstrong ha detto che «è parlare con il cuore». Il jazz è un’intuizione. Arriva dal sentimento, dall’istinto. Un miracolo inventato agli inizi del Novecento dall’incrocio tra musiche americane, africane, francesi. E anche italiane, perché il nostro è stato un contributo notevole. Tutte esperienze convogliate in una strana parola. Per parte mia rivendico il gusto dell’improvvisazione. Esattamente il contrario della musica accademica, dove è tutto scritto e recitato.Il jazz è come la vita?Ha mai notato che lo <+corsivo>swing<+tondo>, che è binario, è esattamente il ritmo del cuore? Ma soprattutto il jazz è la musica della nostra era: musica libera, come la libertà è la grande aspirazione del Novecento.Una provocazione: una Giornata mondiale del jazz non rischia di suonare come le campagne per salvare una razza in estinzione?No. Grazie a Dio il jazz è vivo. È una specie di rivincita del fatto che il jazz sia stato ignorato. La tv lo ricorderà, i jazzisti faranno feste e jam session. Certo, potrebbe essere celebrata ancora meglio con parate nelle città che l’hanno visto protagonista. Ma non sarà una giornata inutile. È il segno visibile del riscatto di questa musica, nata segregata, che dai bassifondi è arrivata alla pari della grande musica. Ci sono voluti 100 anni. Era ora.Qual è la salute del jazz in Italia?Miracolosamente ottima. Il jazz italiano è certamente il secondo al mondo. E forse anche il primo. La verità è che noi italiani il jazz ce l’abbiamo nel dna. Non tutti lo sanno, ma il primo disco jazz lo incise un italiano, Nick La Rocca. La cosa davvero importante è che finalmente è stata trovata la via italiana al jazz: motivi nostri e il contributo della sapienza italiana in fatto musicale. Fino a 20 anni fa gli Usa erano il modello dichiarato. Oggi abbiamo una personalità forte e indipendente. Gli americani ci guardano meravigliatissimi. I nomi? Da Bollani, che si avvicina a essere un caposcuola, a Petrella a Rea a Rava a Fresu... Davvero impossibile un elenco, farei troppi torti.Arbore, lei è presidente di Umbria Jazz. L’Italia è uno dei paesi con più festival, ma di dischi se ne vendono pochi.Negli ultimi anni abbiamo assistito a un incremento dei biglietti del 30%. Il pubblico sta crescendo, ha capito che di jazz ce n’è per tutti i gusti. Ma penso sia anche uno dei motivi per cui il disco jazz non fa grandi numeri: la produzione è molto vasta. Mia madre diceva sempre: «Sparti ricchezza e diventa povertà». Il pubblico è talmente vario che disperde.Torniamo all’inizio della storia. Come ha scoperto il jazz?Davanti a casa mia c’era il circolo ufficiali americani. Ogni sera c’era una festa col jazz. E dopo la guerra lasciarono i dischi. Il primo disco che ho comprato? Stardust di Lionel Hampton. Magnifico. Ma quello che mi ha incatenato al jazz, il disco della mia vita, I wish I could shimmy like my sister Kate di Muggsy Spaniel. L’ho ritrovato dopo tanto tempo e l’ho incorniciato sopra la testata del mio letto.
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