Giorgione, “Tempesta” (particolare). Venezia, Gallerie dell’Accademia - WikiCommons
Dal tono ironico, ma sprezzante dell’affermazione pare chiaro fin da subito quale sarà il grado ustorio della querelle: «Non sappiamo cosa abbia mangiato Giorgione a colazione il 6 settembre 1505, né ci interessa». Magari si trovava dalle parti di Castelfranco, dove dava le ultime pennellate alla sua unica Pala, che aveva dipinto su commissione di Tuzio Costanzo, un condottiero della Repubblica Veneta che durante una battaglia aveva perduto il figlio Matteo a Ravenna. Oppure, dopo aver folleggiato la notte prima con una donzella veneta il pittore forse si era attardato nel sonno più del solito. Anche in questo caso poco ci importa. Ma quella frase così risoluta viene da due studiosi, marito e moglie, musicologi e studiosi di antichità classiche, Ursula e Warren Kirkendale; lei tedesca di Dortmund e lui ha origini canadesi, ma poi venne in Germania a studiare sia storia della musica che letteratura e arte. Lei prodigiosa interprete dell’Offerta musicale di Bach, composizione che con L’arte della fuga è annoverata tra i più complessi ed enigmatici brani del genio barocco, si ritrovò quasi del tutto paralizzata a trentanove anni per un ictus, nel 1971, mentre insegnava alla Columbia; lui, da quel momento, le fece da assistente, segretario, marito e divenne fatalmente coautore di molti saggi che Ursula continuò a scrivere fino all’anno della morte nel 2013. Tra questi anche una intrigante lettura della Tempesta di Giorgione che viene collegata, con dovizia di riscontri testuali, alla Teogonia di Esiodo. Il saggio era uscito in lingua inglese nel 2015, e ora viene rieditato in traduzione italiana dallo stesso editore, Olschki – La “Tempesta” di Giorgione e il suo programma iconologico derivato dalla “Teogonia” di Esiodo, pagine 176, ill., euro 28), rivisto ora con aggiunta di alcune appendici scritte dallo stesso Warren, il quale firma una dedica alla memoria di Ursula, con l’enigmatico nome Varenus de Ceuclo in Valle, dove oltre a celebrare la moglie si dice anche «grato ai nostri avversari e a Giorgione». E in effetti i due coniugi scendono in serrata battaglia contro quel partito degli storici dell’arte che tende a mettere in secondo piano l’importanza delle fonti letterarie per decifrare il soggetto letterario, o il contenuto per così dire, di un’opera d’arte. Non è che la polemica cada fuori dal vaso, d’altra parte si possono individuare nella storia dell’interpretazione del dipinto giorgionesco circa settanta diverse ipotesi su basi letterarie. E i due studiosi forniscono in appendice anche una tabella dove enumerano le interpretazioni che ritengono “errate”: da Marcantonio Michiel nel 1530, il primo a scrivere sulla Tempesta, che vede nelle figure ai margini del paesaggio un soldato e una zingara, a Byron che, affascinato dal dipinto, nel 1817 lo considera una rappresentazione della famiglia di Giorgione (idem il Burckhardt quarant’anni dopo), a Luigi Stefanini che nel 1942 parla di Polifilo e Venere riferendosi alla celebre Hypnerotomachia, mentre Eugenio Battisti nel 1957 sfodera Mercurio, Iside, Epafo da Ovidio; tre anni dopo Pierre Francastel evoca Zeus (dal fulmine) mentre nel 1962 Maurizio Calvesi pensò fosse raffigurato il ritrovamento di Mosè e in seguito spostò il tiro ripetutamente su Ermete Trismegisto, il Polifilo, Giove e la Madre terra; Edgar Wind nel 1969, invece, ricondusse tutto a Fortezza, Carità, Fortuna. Oggi è l’interpretazione di Salvatore Settis del 1978, quella forse più considerata sebbene con severità intellettuale anche in questo caso i Kirkendale ne smontano pezzo per pezzo l’ipotesi, ovvero che si tratti della famiglia adamitica a partire dal testo sulla Genesi di Amadeo, nello specifico la Tempesta sarebbe un’anticipazione della condanna verso Caino, nel dipinto raffigurato mentre viene allattato da Eva. Ma proseguendo ci sono persino letture come quella di Lynette Bosch del 1991 che basandosi sulla Legenda aurea parla di san Crisostomo, la principessa e suo figlio, mentre altri, come Bernard Aikema nel 2003, hanno colto nel dipinto una macchina simbolica tesa a rappresentare l’età dell’oro, oppure nel 2011 Marco Paoli, il rapporto fra il terremoto di Costantinopoli nel 1509 (un anno prima della morte di Giorgione) e il mito di Iside. Queste sono soltanto alcune delle letture che hanno accompagnato per cinque secoli quest’opera così enigmatica che si è chiesto se vi sia effettivamente un soggetto a monte di tutto, o se invece, come ha pensato Lionello Venturi, ciò che importava a Giorgione era una singolare sintesi di forma e intenzioni pittoriche che ha come primo passo la fedeltà al dato naturale, una rappresentazione cioè della vita reale. Sarebbe un inizio di quella linea del naturalismo da cui si può giungere, volendo, fino a Caravaggio. I Kirkendale, alla luce di questo, criticano Hans Belting, il quale dopo essere stato un discepolo di Panofsky e aver lungamente ripensato i destini dell’iconologia, ha affermato che la Tempesta è una «fantasia senza precedenti», un dipinto «liberato da uno stretto legame a un testo». In sostanza, obiettano che se ancora non si è trovata una fonte letteraria che corrisponda ciò non significa che non vi sia stata, si tratta di cercare, anche perché nel Rinascimento era più frequente questa scelta che dipingere senza soggetto o, come sostenne James Elkins, a partire da un “antisoggetto”. Secondo i due esegeti – ed è questa una delle note più polemiche a fondamento del saggio – le fonti letterarie hanno sempre la precedenza sulle ragioni soltanto visive. Che Warren ritenga che il gioco ermeneutico sia anche e soprattutto quello di rintracciare i significati nascosti, lo dice ancora la dedica in esergo laddove cita l’Ippolito di Euripide dove recita, in sostanza, «le seconde idee sono più sagge». I Kirkendale arrivano a dire che lo stesso Giorgione potrebbe aver dipinto di più di quanto conosceva, ovvero «potrebbe comunque aver realizzato più di quanto abbia immaginato». Il paradosso sottintende che sul piano informativo il pittore potrebbe essersi confrontato col committente e altri letterati per definire nel dettaglio il programma iconologico della Tempesta. Alcune suggestioni interpretative non si possono negare, come quando i due studiosi individuano nei caseggiati sullo sfondo del paesaggio, nove immobili, le case delle Muse. Così come anche la figura femminile con le gambe a bagno che emerge dalle radiografie come prima scelta là dove ora si trova l’uomo col bastone, avrebbe una sua funzione prevista nel programma di Giorgione, poiché fa pensare che il pittore fosse a conoscenza della Teogonia stampata nel 1495 da Aldo Manuzio, attraverso il dialogo con qualcuno che conosceva bequalcuno ne la versione greca. Sul fatto che la figura femminile-musa scompaia per lasciar posto al ragazzopastore, i Kirkendale ritengono che Giorgione possa essersi accorto soltanto in un secondo tempo di quando Esiodo dice che le muse «di là partite, velate di fitta invisibilità, nella notte andavano, versando una voce bellissima, celebrando l’egioco Zeus». Così in ragione di quell’invisibilità anche il substrato pittorico dell’opera si adegua nascondendo l’immagine. Vari e molteplici altri gli spunti presi dai due studiosi per confermare come il riferimento alla Teogonia calzi piuttosto bene. Ma ecco che non è mai finita. In contemporanea, un altro storico dell’arte, Marco Ruffini, pubblica un saggio dal titolo apparentemente semplice, in realtà assai sibillino: Pittura e soggetto, e vi aggiunge un sottotitolo eloquente: « Il caso della Tempesta di Giorgione » (Campisano, pagine 224, euro 40). Come sempre, con il “grande enigma” anche la sezione bibliografica abbonda (così pure nel saggio dei Kirkendale, i quali tuttavia non figurano in quella di Ruffini: potrebbe trattarsi di un caso “avverso” di quelli che Warren evoca nel suo esergo? Ci viene naturale pensare a una svista, ma è un po’ difficile convincersi, perché l’ipotesi esiodea è di quelle pesanti nella storia interpretativa dell’opera). Ruffini conduce un esame serrato sulle questioni estetiche e di poetica dell’arte che regolano la stessa querelle centrale anche per i Kirkendale – soggetto, non soggetto, soggetto nascosto? – e premette che, salvo le opere a tema sacro, con Giorgione non si sa mai quale significato dare ai suoi dipinti. Lo storico si chiede quanto il modo elusivo sia voluto da Giorgione o sia invece una conseguenza «della resa naturalistica di una storia senza rimandi espliciti alla sua fonte letteraria»? Se prevalga, insomma, il come rispetto al cosa: il soggetto, per alcuni, sarebbe infatti lo stesso modo di dipingere, che va in direzione del naturalismo. Un discorso di antica data, che risale all’Alberti e a Vasari, ma che ha segnato tutto il Novecento e l’estetica seguendo la strada di Duchamp quando affermò la tabula rasa dei significati. Conta solo come un’opera si rende presente, non il messaggio o i sottintesi letterari. E se fosse superfluo, dice Ruffini, stabilire il soggetto della Tempesta? Ma, alla fine, neppure lui rinuncia a scoprire il programma iconologico dell’’opera e la collega al culto della Maddalena, anche in questo caso riferendosi alla Legenda aurea, intuizione, scrive, che gli venne alla Basilica inferiore di Assisi nella cappella dedicata alla Santa. Una storia molto presente al tempo di Giorgione, come diffusione del culto provenzale e in particolare dell’episodio del Miracolo rappresentato anche da Giotto con la resurrezione della moglie e del figlio del principe di Marsiglia. Ma il vero mistero di questa storia, che continua, sembra riguardi invece il vero committente della Tempesta, ancora non identificato con certezza. Alla prossima puntata, dunque.