giovedì 13 marzo 2014
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«Sapevo che mio padre custodiva una storia, ma per anni non sono riuscito a farmela raccontare. Finché un giorno mi sono seduto davanti a lui e l’ho convinto». È con immenso affetto che l’attore, autore e regista Gioele Dix, al secolo David Ottolenghi, parla del padre Vittorio, 86 anni ben portati e una storia sofferta alle spalle a causa delle leggi razziali. Che il figlio David ora è riuscito a farsi raccontare e a trasformare in un libro avvincente come un romanzo, solo che è tutto vero. Quando tutto questo sarà finito. Storia della mia famiglia perseguitata dalle leggi razziali , appena edito da Mondadori (pagine 156, euro 16,50), va oltre l’autobiografia. La storia di una famiglia ebrea della buona borghesia milanese, stravolta dalle leggi razziali del 1938 e costretta alla fuga in Svizzera, è raccontata attraverso gli occhi del piccolo Vittorio.«Ho lavorato tanto sulla scrittura – racconta Gioele Dix –. Ho capito che la chiave giusta era scrivere l’avventura raccontata da un bambino di dieci anni che, attraverso una serie di traversie, arriva ai quindici diventando un uomo». Una avventura reale in cui l’eroe è Maurizio, il padre di Vittorio e nonno di Gioele Dix, rispettato direttore di un setificio in quel di Como che dopo l’8 settembre 1943 riesce a fare fuggire la moglie e i figli piccoli in modo rocambolesco in Svizzera: dove però verranno tutti separati e sparpagliati in vari centri accoglienza, affrontando con dignità dolore e malattia. «Mi sarebbe piaciuto interrogare di più mio nonno, ma uno se ne rende sempre conto quando è troppo tardi – aggiunge Gioele Dix –. Del racconto di mio padre invece voglio restituire lo stupore di un ragazzo, il coraggio con cui affronta le difficoltà e la solitudine, la sua tenerezza. È la storia di un padre e di un figlio, raccontata da un padre a un figlio. I legami familiari sono sempre stati molto forti tra noi. Sono convinto che questo legame e il rispetto siano più forti in quelle famiglie in cui c’è un senso religioso».La famiglia Ottolenghi non ha dovuto affrontare i campi di sterminio, tuttavia la privazione dei diritti fondamentali, le umiliazioni e le traversie, – compresa la perdita di un fratellino ammalatosi nel campo di accoglienza – «hanno lasciato segni profondi nel carattere di mio padre» aggiunge lo scrittore. «E anche nelle sue abitudini, come quella di chiamare “l’amica confederazione” la Svizzera, per cui nutriva una vera devozione che dimostrava ogni volta che da bambino mi portava oltreconfine a comprare la cioccolata». Due anni fa la decisione di Gioele Dix di tornare col padre sui luoghi dove venne accolto durante l’esilio, un campo profughi prima, un ospedale dove rischiò la vita per una febbre fulminante, la casa di una vedova che lo accolse come un figlio e il collegio di Basilea dove Vittorio poté studiare. «Furono due giorni che non dimenticherò mai – aggiunge commosso l’autore –. Ogni tanto mio padre si fermava, mi raccontava delle persone che aveva incontrato, dei luoghi che aveva frequentato. Ho sentito che finalmente, dopo tanti anni, lui se la sentiva di parlare, di mostrarsi anche fragile. E il nostro rapporto, se possibile, si è rinsaldato ancora di più». Scrivere questo libro è stato anche un modo per Gioele Dix per rendere ancora più visibili le radici della sua fede ebraica, che già l’hanno portato in questi anni a studiare e portare in scena la Bibbia. «C’è un particolare un legame come anelli di una catena tra padre, figlio, nipote. C’è un momento nel giorno del Kippur, una benedizione che il padre dà al figlio ponendo un lembo del talled, la sciarpa rituale, sulla testa del figlio. Ho l’immagine di mio nonno che copre papà, il quale copre me e io soffoco perché sono piccolo – ricorda –. Poi cresco e mi devo ingobbire perché sono diventato più alto loro, poi il nonno invecchia e diventa curvo e infine arriva il tristissimo Kippur in cui il nonno non c’è più. Nel frattempo, arriva mia figlia a cui io copro la testa e che dà continuità alla famiglia». Una famiglia perfettamente integrata nell’Italia di oggi come in quella di allora. «Una famiglia di italiani in un’Italia buona – sottolinea Dix –. Dal carabiniere che viene a casa a fare un controllo e chiude un occhio, fino allo straordinario tenente della Guardia di Finanza che rischia la vita per fare passare il confine alla famiglia ebrea, o alla suora francese che salva Vittorio febbricitante da morte certa». Nel libro ricorda anche come una prozia romana si sia salvata grazie all’accoglienza in un convento di suore nel quartiere San Lorenzo. «Piccoli segni dal valore enorme – aggiunge l’autore – che dimostrano che c’è stata tanta brava gente in questo Paese. Ed è uno dei motivi per i quali i miei nonni sono tornati a Milano, hanno ripreso la loro casa e il loro lavoro». Gioele Dix presenterà il libro lunedì 17 aprile alle 19 al Franco Parenti di Milano, insieme a Andrée Ruth Shammah, la regista per la quale presto sarà Il malato immaginario di Molière.
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