martedì 20 ottobre 2015
​La singolare sotria di un falso a sanguigna di Monna Lisa commissionata dall'autore del famorso "ratto" del 1911 a un amico ticinese.
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Stregati da una donna, ma non in carne e ossa: una dama dipinta. Questa è la storia, scoperta dall’autore di questo articolo, di due uomini avvinti dal potere di fascinazione di un’opera d’arte diventata famosa grazie al gesto eclatante di un furto che ha eccitato la fantasia di Gabriele D’Annunzio, di Picasso, di Apollinaire e di molti altri artisti e intellettuali, inclusi registi di cinema. È la storia del furto della Gioconda, una vicenda tortuosa che include, oggi lo sappiamo, un capitolo rimasto sepolto per oltre un secolo. I protagonisti di questo retroscena, che viene finalmente alla luce, sono due amici. Uno è Vincenzo Peruggia, un emigrato italiano originario del paese di Dumenza, in provincia di Varese, al confine con la Svizzera. È lui l’autore del ratto del dipinto leonardesco, staccato da una parete del Louvre la mattina di lunedì 21 agosto 1911, per finire in balia del suo sequestratore per oltre due anni, fino a quando, nel dicembre del 1913, la polizia italiana non lo recupera, a Firenze, facendo scattare le manette ai polsi del ladro. L’altro uomo è un suo collega decoratore svizzero, che abita appena al di là della frontiera, nel villaggio confinante con Dumenza, Astano, nella landa ticinese del Malcantone. Proprio a lui, Peruggia affida il compito più delicato: quello di ritrarre la Gioconda, dal vivo, cioè in presenza dell’opera originale. A che scopo? Non certo per fabbricare un ennesimo falso, quanto piuttosto per lasciargli il ricordo imperituro della donna che ama. Una femmina più palpitante e vera delle tante su cui ha posato il suo sguardo di rubacuori. Una dama che ha sedotto l’umanità con quel suo ambiguo accenno di sorriso, con la sua composta e segreta armonia.  Certamente, a Peruggia, Monna Lisa dovette scottare, tra le mani, con il trascorrere del tempo. L’artigiano dumentino credette di riscattare l’onore proprio, e quello di tutti gli italiani emigrati in Francia, rubando il quadro che riteneva erroneamente essere frutto delle razzie napoleoniche nella Penisola. Il suo atto assomiglia tanto a una delle provocazioni futuriste in voga all’epoca. Ma si sbaglia a credere che Peruggia fosse animato soltanto da nobili ideali patriottici. Coesistevano, in lui, anche propositi più venali: tanto è vero che si recò a Londra, con l’opera vinciana, per tentare di venderla a un mercante inglese. Alla fine, su suggerimento di D’Annunzio, ripiegò sull’antiquario fiorentino Alfredo Geri, che fece però scattare la trappola con l’intervento della polizia. In tutto questo rincorrersi di peripezie al limite dell’incredibile, si intarsia la vicenda dell’intervento del suo amico elvetico, vale a dire il copista. Si tratta di un personaggio che il pubblico non conosce: il suo nome è Marco de Marchi, in arte 'Richin'. Nato nel 1884, tre anni più giovane del Peruggia, 'Richin' frequenta la scuola di disegno di Dumenza, ai cui corsi è iscritto anche Vincenzo. Guadagnatosi il diploma di adornato, de Marchi va a Milano a perfezionare la sua mano, all’accademia d’arte di Brera. I due compagni poi si separano. Peruggia emigra in Francia, mentre 'Richin' raggiunge il fratello Quinto a Buenos Aires, per dedicarsi alla decorazione del palazzo di governo, del Teatro Colón e di altri importanti edifici della capitale argentina. Nel 1905, i due fratelli astanesi rimpatriano, per separarsi di nuovo. Mentre Quinto resta in Svizzera, Marco si stabilisce a Parigi, dove rimane fino al 1913. Sono proprio gli anni del rapimento della Gioconda. Quel che accade è stato ricostruito dall’attuale detentore della 'copia' del capolavoro leonardesco, il pronipote di de Marchi, Marco Morandi, bancario in pensione di 73 anni. La cosiddetta 'copia' di Monna Lisa, anzitutto, ne riproduce quasi fedelmente le dimensioni: 70 centimetri per 45, contro i 77 per 53 dell’originale su legno. Mentre la Gioconda è nelle disponibilità di Peruggia, nella sua abitazione parigina al numero 5 di Rue de l’Hôpital Saint-Louis, occultata sotto il tavolo da pranzo, interviene Richin. Il seguito del racconto è la parte più interessante, e affascinante, di tutta quanta la storia. Mentre de Marchi la ritrae, con una matita color seppia, la dama pare balzar fuori dalla nuda materialità che la segrega, da quattro secoli. L’artista svizzero pare avvinto dalla stessa, magica, carica di seduzione che domina il suo amico Peruggia da quando è divenuto possessore della Gioconda. Comincia allora a scrivere vere e proprie lettere d’amore alla donna, nel suo sconnesso italiano influenzato dal lessico ispanico per via delle sue avventure d’emigrazione. In uno di questi messaggi, così le si rivolge: «Lisa vi dirò che mi sembra una rondinella, è tutta allegra tiene una mirata pare di desirme asta ora non ti conosco muy seria, con una man». Come interpretare questo frammento? Monna Lisa gli pare allegra come una rondinella, ha uno sguardo («mirata», cioè mirada) che esprime il desiderio di un contatto carnale («pare di desirme»), nel momento stesso («asta ora», cioè hasta hora) in cui la ritrae. La signora non pare mossa da intenzioni rispettabili («non ti conosco muy seria»), ma la sua mano sembra animarsi per uscire dal quadro come il segnale inequivocabile di una profferta amorosa. Queste parole, fissate su una striscia di carta, sono emerse, insieme ad altri documenti, quando la 'copia' della Gioconda è stata staccata dal fondale e dalla cornice, alla presenza di un notaio di Lugano. Non v’è alcun dubbio che questa riproduzione, o meglio interpretazione, dell’opera di Leonardo sia l’unica realizzata nel tempo in cui essa rimase nelle disponibilità del Peruggia. In un altro messaggio, d’altra parte, il copista così si rivolge all’amico: «Caro fratello Vi. [ Vincenzo, cioè Peruggia] Lisina non sarà rittoccata [sic]». L’erede di 'Richin', Morandi, ha riesumato la 'Lisina' da un vecchio ripostiglio di casa, e si è talmente appassionato alla sua storia da aver composto il puzzle che ne certifica l’origine. A Dumenza e ad Astano, mi racconta, la gente aveva per decenni sussurrato il legame di 'Richin' con il furto della Gioconda. Si diceva che un astanese avesse dipinto un celebre quadro. Di quale si trattasse, non era difficile immaginarlo. Ma nessuna prova era emersa al riguardo; fino al ritrovamento della copia nascosta. A coronamento di tutta questa trama, bisogna spiegare che Peruggia, e la sua famiglia, rimasero scottati dagli strascichi giudiziari del trafugamento. L’artigiano dumentino subì un processo conclusosi con una condanna, tutto sommato mite: un anno e quindici giorni di carcere, poi ridotti a sette mesi e otto giorni, in considerazione di alcune attenuanti, come le motivazioni patriottiche del gesto. Resta il fatto che Vincenzo Peruggia aveva un’indole beffarda, perché riuscì a rientrare in Francia, da dove era stato espulso, manomettendo la sua identità. Morì in terra straniera l’8 ottobre 1925. Crollò, stroncato da un infarto, davanti alla figlioletta di un anno, con in mano una bottiglia di champagne e un piatto di pasticcini: quel giorno compiva infatti 44 anni.  Quanto a de Marchi, si tenne stretta la riproduzione, evitando di consegnarla al committente e amico. Temendo di finire nei guai, come complice di quello che la stampa dell’epoca definì «delitto estetico», portò il disegno ad Astano, e lo tenne ben celato, attento a non lasciarsi sfuggire neanche una parola al riguardo. Tuttavia, la vox populi riuscì a intercettare il segreto, proteggendo l’identità dell’autore astanese della Gioconda voluta dal Peruggia. 'Richin', allarmato dagli esiti giudiziari del caso, pensò bene di cambiare aria, tornando in Argentina, da dove rimpatriò definitivamente nel 1924. Morì nel 1957. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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