martedì 25 maggio 2010
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Se il Libro di Giobbe figura nella Bibbia, è perché mette in scena un dialogo memorabile con Dio che costituisce un ulteriore avanzamento della Rivelazione. Esso affina e precisa l’idea di Dio, la de-paganizza, la libera della concezione meccanica del Dio-Giustiziere. Rivela l’"umanità" di Dio e delinea in anticipo la figura di Cristo. Dio vi si scopre infatti come un essere libero e che ci vuole liberi, quindi "debole" in questo senso e desideroso di assumere questa debolezza. Permette la prova del male estremo, per farci scoprire la legge dell’amore e per persuaderci del nostro destino sovrannaturale. Ho già studiato in altra sede questa dimensione teologica del libro . Ora, vorrei analizzarne un altro aspetto, cioè che la prova salutare inviata a Giobbe è una malattia.Giobbe è «colpito da una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo» (2, 7). È senza dubbio una lebbra, poiché è costretto ad abbandonare la città, a recarsi in un posto isolato, «nella cenere», dove si gratta con un coccio. La malattia lo consuma, decompone il suo corpo sotto i suoi occhi. Non è previsto alcun rimedio umano a questo male. La malattia è ritenuta incurabile. Essa è l’equivalente dei nostri cancro, Aids, sclerosi a placche, ecc., in fase terminale. La morte appare ineluttabile. L’epilogo ci dice che la situazione di Giobbe verrà ripristinata, che avrà nuovi figli, nuove greggi, e che vivrà ancora centoquarant’anni, il che suppone che egli avrà recuperato la salute (42, 10-17). Ma si tratta di resti di un apologo orientale edificante estraneo al proposito principale. Nei dialoghi che costituiscono il corpo del libro, non si prende in considerazione la guarigione, ma, ed è ben diverso, una redenzione («So che il mio vendicatore è vivo; […] [e che] vedrò Dio», 19, 25-26). Giobbe sarà forse resuscitato; ma, sulla terra, non sarà guarito, e lo sa.Sappiamo che la malattia è spesso all’origine della fede o è una causa di approfondimento decisivo della fede, perfino di vocazioni religiose o profetiche. Anche la vecchiaia può essere occasione di un ritorno a una fede dimenticata, quando le scadenze fatali si avvicinano. L’ateismo moderno prende questi fatti a pretesto, per sostenere che la fede è solo un’illusione prodotta dalla debolezza umana. Ora, poiché molti uomini non sono deboli e attraversano la vita senza subire prove maggiori, il passaggio attraverso la fede non avrebbe nulla di necessario e la problematica religiosa potrebbe e dovrebbe essere esclusa dall’agenda intellettuale dell’umanità. Questa argomentazione dell’ateismo si è nutrita in modo singolare, negli ultimi due secoli, dei successi spettacolari della medicina, che hanno fatto credere a molti che fossero vicini i tempi in cui, con la guarigione quasi di tutti i mali, Dio sarebbe sparito definitivamente dall’orizzonte. Ora, il Libro di Giobbe rifiuta da subito questa idea. Esso ci obbliga a pensare che sia la vita "normale" a essere un’illusione, un divertissement nel senso di Pascal, e che la malattia, ricoprendo il ruolo di rivelatore, abbia un insostituibile valore di verità. Infatti, dall’analisi della sua malattia e dai fallimenti delle tecniche umane per prevenirla o guarirla, Giobbe trae la convinzione che la malattia non è un caso, ma, in un certo senso, la norma segreta della vita, l’elemento nel quale vive in permanenza il mondo, e che Dio stesso, lungi dall’aver la serenità che l’idolatria gli attribuisce, non ne è affatto esente. Quel che emerge dalle straordinarie descrizioni dei capitoli 12, 21 o 24 è che il mondo è malato. Sulla Terra, nulla funziona. Invece di esistere un ordine, una Legge turbati soltanto a titolo eccezionale da qualche peccatore smarrito che basterebbe richiamare all’ordine, il mondo va, in sostanza, di traverso. I cattivi prosperano e primeggiano, i giusti sono indigenti, nudi, sfruttati, i bambini innocenti muoiono senza motivo, i paesi sono governati da folli. Il discorso rassicurante degli amici è quindi menzognero, come tutta la teodicea. Questo può essere trasposto in epoca moderna, in cui il discorso della scienza e della tecnica ha sostituito la " tecnica religiosa" con tre amici: neppure la scienza spiega tutto, la tecnica medica non guarisce tutto, il suo scacco è tanto più chiaro che, siccome guarisce di fatto molte malattie, la sua impotenza a guarirne alcune è più evidente e fatale.Ma, d’altra parte, anche Dio non sta bene ! Giobbe ne ha l’intuizione intima. Comprende che Dio ha creato l’uomo per amore, ma l’amore è ferita e malattia, come viene detto nel Cantico dei Cantici. E quindi se si prende sul serio l’idea che Dio crei per amore, occorre concludere che Dio è ferito e malato. Poiché non vuole essere amato per forza, dal momento che l’amore ha senso solo nella libertà reciproca, Dio ha bisogno che la sua creatura sia libera ed egli la crea tale. La malattia di Giobbe avrà avuto come frutto questa visione mistica originale e grandiosa che sarà sostituita e sviluppata da tutta la tradizione cristiana. Anche san Paolo porrà come tesi che la creazione è sostanzialmente imperfetta: «Tutta la creazione geme fino a oggi nelle doglie del parto» (Rm 8, 22-23). Sant’Agostino dirà che l’uomo non può raggiungere la serenità, che è un «cuore privo di quiete» (De civ. Dei, XIX, 26), e che sarà così fino a quando Dio e l’uomo non avranno combattuto insieme il male fino alla vittoria finale e fatto trionfare definitivamente l’amore. Questa verità avrebbe potuto essere raggiunta dalla semplice riflessione astratta ? Certamente no. L’alterazione drammatica della personalità antropologica, sociale o psicologica di Giobbe ha avuto come effetto di lasciar sussistere in lui solo il suo animo, cioè l’unica istanza suscettibile di decisione morale e di speranza escatologica. La malattia ha fatto passare Giobbe in una specie di fuoco che ha bruciato in lui tutto ciò che non era essenziale.
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