mercoledì 13 febbraio 2013
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​Il bambino che, per timidezza, si nascondeva sotto il bancone del bar di famiglia ha deciso di tornare al paese. Sono passati gli anni, molti, e un po’ di mondo l’ha visto anche lui. Trasferendosi in città, diventando professore, pubblicando libri. Eppure è come se non si fosse mai mosso da lì. Di sicuro, non è guarito da quell’impressione strana, che provava fin da piccolo, di sentirsi sempre un po’ fuori posto. È La malattia dell’altrove, come la definisce fin dal titolo Elio Gioanola, autore di questo sorprendente volume in uscita da Jaca Book (pagine 200, euro 18). In parte memoir, in parte ricognizione critica, è il bilancio di un’avventura umana e intellettuale che, finora, non ha avuto adeguata attenzione in Italia. Classe 1934, a lungo docente di Letteratura italiana all’Università di Genova, Gioanola ha al suo attivo un’imponente bibliografia di studi su autori quali Pavese, Gadda, Pirandello, Svevo, Pascoli, Leopardi e Montale, tutti indagati in una singolare prospettiva psicoanalitica. Senza dimenticare una manciata di romanzi (il suo prediletto è Marino Nava ha visto la Madonna, del 2002), a testimonianza di una vocazione narrativa che trova espressione felicissima anche nella Malattia dell’altrove. «In realtà – spiega – non ho mai operato alcuna distinzione fra critica e racconto. Sono uno scrittore che fa critica o forse un critico che scrive. Per me indagare alcuni episodi decisivi nell’esistenza di un autore non significa ricostruirne la biografia, ma illuminare in modo diverso il testo che sto studiando».Che cosa nasce per prima: la nostalgia per l’altrove o l’amore per la letteratura?«E chi lo sa? È questione di pathos, una parola che richiama sia al sentimento (il patetico) sia alla malattia (il patologico). Nel mio caso, ho avvertito abbastanza presto la sensazione di non star bene nel mondo così com’è. Il desiderio di trascenderne i limiti è venuto di conseguenza. Si è scontenti del fenomenico e, quindi, si cerca il trascendente».Parla in termini filosofici.«Non ho un temperamento speculativo, ma sono sempre stato attratto dai grandi scrittori-filosofi, come Schopenhauer e Leopardi. Non mi stancherò mia di ripeterlo: i quindici versi dell’“Infinito” sono il testo della svolta, il documento centrale nell’“ultrafilosofia” leopardiana. Un moto interiore che, muovendo dalla crisi dell’illuminismo, porta a superare il dominio della materia e del razionale, fino a spingersi nell’irrazionale o, meglio, nel trascendente».Lei ha studiato molti autori, ma mi pare che per Leopardi abbia una certa predilezione.«Leopardi stesso, riferendosi a Omero, sottolinea come la grandezza stia nel “cominciamento”. Come Omero è stato il primo poeta dell’umanità, Leopardi è stato il primo a individuare una via di fuga rispetto a un pensiero raziocinante ormai inaridito e chiuso in se stesso. Si tratta dello stesso percorso che sarà poi compiuto da Dostoevskij, in particolare con le Memorie dal sottosuolo, dove l’eroe di ascendenza romantica viene sostituito dal non-eroe della modernità, tormentato e problematico fino alla nevrosi».Ed è qui che entra in scena la psicoanalisi.«Non mi considero, e non sono considerato, un critico psicoanalitico nel senso proprio del termine. Quando ho iniziato le mie ricerche, negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, la cultura italiana era sotto lo strapotere dello storicismo, nel quale confluivano i residui ancora vigorosi dell’idealismo crociano e le istanze del materialismo marxiano. La mia prima reazione fu quella di rivolgermi all’esistenzialismo, ma un certo punto mi sono reso conto che la psicoanalisi, con la scoperta fondamentale dell’inconscio, rappresentava un’opportunità straordinaria per uscire dalle strettoie del conformismo storicista. Freud è un uomo dell’Ottocento, concepisce la nuova disciplina come una scienza, ma nel momento stesso in cui si imbatte nell’incoscio finisce per minare alle fondamenta ogni pretesa sistematica. In questa contraddizione mi è sembrato di trovare un appoggio alle mie convinzioni di studioso e di credente».Che ruolo ha giocato, in tutto questo, il suo orgoglio di provinciale?«Ha sempre rappresentato il legame con uno stile di vita più spoglio ed essenziale di quello odierno. Sono cresciuto in un mondo ancora sottratto al predominio di quella che Carlo Sini definisce la “monocoltura”. Fenomeno devastante, nella lingua come nell’alimentazione. Non si può parlare soltanto inglese, non si può coltivare soltanto mais. Rimanere paesano, per me, ha significato non dimenticare il ritmo delle stagioni, non rassegnarmi all’idea che, a sera, ciascuno si rintani nel suo appartamento».Ma gli scrittori di oggi soffrono ancora della malattia dell’altrove?«Mi trovo più a mio agio con i classici, ma ogni tanto mi capitano incontri rivelatori, come quello con Henry Roth, l’autore di Chiamalo sonno. In lui, come in tutti gli scrittori autentici, la disperazione del vissuto conduce alla ricerca di un’alternativa. Si bussa a un cancello che resta invisibile e che potrebbe anche non aprirsi. Tuttavia non si può fare a meno di insistere, di sperare».Anche in un miracolo?«È un tema importante, anche per i romanzi che ho cercato di scrivere. Il miracolo, dal mio punto di vista, è sempre quello di Montale: l’anello che non tiene, l’evento inatteso che spezza la successione consueta della quotidianità. Ogni tanto si sente parlare di “miracolo laico”, ma è un’illusione: ogni apertura, nel momento in cui si verifica, dà accesso alla trascendenza. Ci porta altrove, finalmente».
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