sabato 10 aprile 2021
Esce una parte dell’epistolario del medievista e filosofo. Oltre a dialogare con l’allievo Gouhier, ha lasciato un’ingente mole di lettere a Gabriel Marcel, Bachelard, Ricoeur, De Lubac e altri
Lo storico e filosofo Étienne Gilson durante un momento di svago

Lo storico e filosofo Étienne Gilson durante un momento di svago - Jaca Book

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«Mi piacerebbe un anno di vita selvaggia, con una canna da pesca e un fucile in una capanna nel bosco» confessa Étienne Gilson all’amico e allievo Henri Gouhier in una missiva dell’ottobre 1934 ora pubblicata per la prima volta in italiano nel volume, edito da Jaca Book, Il momento Malebranche. Lettere 1920-1936 (pagine 234, euro 24). L’edizione italiana, a cura di Igor Agostini, raccoglie parte dello scambio epistolare tra i due e sarà disponibile in libreria dal prossimo 15 aprile. L’apparente oscurità del titolo è presto svelata. Géry Prouvost ha classificato le lettere trasmessegli da Gouhier nel 1994, che coprono un arco di tempo che va dal 1919 al 1966, in nove momenti principali. E uno riguarda Malebranche.

È solo una piccolissima parte dell’enorme epistolario di Gilson (1884-1978), non solo uno dei grandi medievisti del Novecento ma anche un non trascurabile pensatore cattolico, che della rivalutazione della metafisica e dell’importanza filosofica del cristianesimo ha fatto un cavallo di battaglia. Nel corso degli anni lo studioso francese intrattiene un’abbondante corrispondenza con molti autori, da Gabriel Marcel a Gaston Bachelard, da Paul Ricoeur a Henri de Lubac e molti altri. Da essa traspaiono riflessioni, piste di ricerca, umori. Non fanno eccezioni quelle a Gouhier. Vi fanno capolino progetti di tesi, libri e attività editoriale, svolta nell’ufficietto della libreria Vrin, dove l’editore francese apostrofava Gilson come «mon calvaire». Tra le confessioni non mancano le idiosincrasie in particolare nei confronti di Louis Rougier accusato di plagio. Ci sono poi i suggerimenti a Gouhier sul taglio da dare al lavoro su Malebranche. Il padre oratoriano, la cui riflessione filosofica senza l’esperienza di fede sarebbe inimmaginabile, andrebbe considerato per Gilson l’ultimo degli scolastici agostiniani piuttosto che un autore moderno. Per lui la ricerca comunque prevale sull’insegnamento.

«Quando si deve scegliere – ammonisce – credo che si debba mettere al primo posto la produzione, perché, se si dà la priorità all’insegnamento, si uccide la produzione scientifica e si abbassa il livello di insegnamento». Dalle missive emerge un Gilson diverso da quello immaginato sprofondando nel poderoso La filosofia nel Medioevo. Lo storico del pensiero che rivendica l’importanza di sant’Agostino, di san Tommaso, di Dante per lo sviluppo della filosofia futura in polemica con il razionalismo allora imperante, non rinuncia all’ozio. «Da buon discepolo di Descartes – racconta – chiudo i libri per cinque o sei settimane per leggere il libro del mondo e per rigenerarmi attraverso l’azione. Parto quasi certamente il 12 di agosto per raggiungere le regioni affamate della Russia; spero che, rientrando, la mia testimonianza possa permettere di salvare qualche sfortunato, magari anche qualche migliaio. Conto di occuparmi soprattutto dei bambini e degli intellettuali; preferisco questo che annoiarmi un mese al mare». Gilson non dimentica lo svago, però.

«Avete mai trascorso tre ore da solo su uno scoglio – scrive a Gouhier –, in mezzo a un fiume largo quattro chilometri, con vestiti e stivali in gomma, seduto nell’acqua, in compagnia di quindici anatre in legno, mentre duemila anatre in carne e ossa si trovano sopra di voi, fuori dalla vostra portata, senza che una sola di loro si degni di offrirsi in sacrificio? Se non altro, tante gallinelle d’acqua e gallinule potranno testimoniare che l’anziano con gli occhiali che sono ormai diventato resta ancora il dead shot, cecchino infallibile, che fui da giovane. Come ero sporco, al rientro, Dio mio!».

Eppure i primi Anni Trenta smuovono le preoccupazioni per la situazione politica come testimonia pure il primo volume delle due opere complete pubblicato in Francia qualche anno fa e che meriterebbe una traduzione italiana. «Mi sembra come se fossimo i protagonisti di dialoghi platonici a Pompei alla vigilia dell’eruzione », assicura nell’agosto 1934. «Sono convinto – ammette – che il mondo abbia la possibilità di scegliere fra religione e barbarie, e che Dio è nel cattolicesimo ». Per farlo occorre però realizzare una disamina del presente senza indulgere in ingannevoli interpretazioni. Il dipanarsi degli eventi in Germania, con l’avvento di Hitler, non distoglie lo sguardo di Gilson, che ritiene il nazionalsocialismo il manifestarsi della negazione di Dio. Ma non la sola o l’unica. «Credo – riflette nel 1934 – che ciò che è successo lì abbia un’importanza o, comunque, un significato planetario. Una pura essenza si è svelata, dopo essere stata tanto a lungo cercata, e si è infine manifestata pubblicamente. Dopo la nascita di Gesù Cristo, non poteva accadere nulla di veramente più importante che il rifiuto di Gesù Cristo. Ecco che è successo. Ciò che mi colpisce è che i nostri avversari francesi di Hitler non si accorgono di lavorare per lui con la speranza di salvare l’uomo dalla schiavitù da parte dell’uomo. Sono degli hitleriani vergognosi».

A Gilson non difetta il coraggio della parola, d’altronde «non siamo spiriti liberi, mio caro amico; nulla da fare... Lavoriamo troppo perché l’ignoranza liberatrice ci autorizzi ad affermare qualsiasi cosa». Ma la situazione induce a pensare diversamente perché, aveva scritto già nel 1931, «penso che sia arrivato il momento di costruire qualcosa, poiché siamo in un vuoto ed è di insegnamenti positivi che si ha bisogno. Prima di darli, occorrerebbe afferrare l’essenza dei principi, dal momento che è il possesso delle verità fondamentali che dà all’anima la sua libertà».

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