giovedì 10 agosto 2023
Membro del Collège de France, il grande filosofo cattolico elaborò un’articolata visione riferita alle singole discipline artistiche. Esce il saggio sui legami tra materie e bellezza
Il filosofo Étienne Gilson

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La capacità di ragionare sull’arte da parte di uno storico della filosofia medioevale, e del tomismo in particolare, ma anche filosofo a sua volta in proprio, penso che gli venisse dalle lezioni di Henri Bergson che seguì al College de France; sul versante bergsoniano Gilson dà prova di aver messo a frutto il pensiero di un suo coetaneo, un gigante della storia e della critica d’arte, Henri Focillon, che ci ha dato un breve saggio teorico impregnato di bergsonismo che ancora oggi tiene un posto (o dovrebbe tenerlo) nella formazione dei nuovi studiosi d’arte e degli artisti stessi: parlo di Vita delle forme, spesso e opportunamente seguito da un saggio ancor più breve che s’intitola Elogio della mano.

Secondo Gilson due cardini di pensiero nei quali Focillon si dimostra “insuperabile” sono anche principi complementari: primo, «le materie hanno un certo destino o, se si vuole, una certa vocazione alla forma»; secondo, le materie che l’artista impiega, «anche unite da una rigorosa relazione formale», danno vita a un nuovo ordine. Il libro di Gilson, Materie e forme. Poietiche particolari delle arti maggiori, recentemente edito da Morcelliana (pagine 222, euro 18) si potrebbe dire che ruoti tutto attorno a questi due pensieri di Focillon, e quando l’autore dice che il cuore concettuale di Vita delle forme trova compiuta rappresentazione nell’architettura, egli mette in luce la dipendenza di entrambi da Bergson, poiché «le forme architettoniche vivono, perché gli architetti che le creano sono dei viventi» e dunque «nell’immaginazione di alcuni, la nuova tecnica si rivela ricca di possibilità ancora vergini nel regno della bellezza».

Perché di questo si tratta, se parliamo di belle arti. Forme che cavano dalla materia tutto ciò che esse possono dare alla manifestazione del bello. Possono esistere arti che si pongono come esperienze estetiche, ma secondo Gilson non hanno quasi niente a che fare con le belle arti, possono sfiorare o attingere la bellezza ma questa non è il loro fine ultimo e, pertanto, non rientrano nelle belle arti (direi che oggi riguarda gran parte delle arti visive); Gilson non nega che siano arti, ma non quelle che puntano al bello. Facendo tesoro dei pensieri di Focillon sulla «vocazione formale della materia» – il quale, secondo Gilson, elabora una vera e propria legge così definibile: «le materie della natura costituiscono un ordine nuovo nel divenire materie dell’arte »: riflette l’esergo kantiano tratto dalla Critica del giudizio e posto in apertura dall’autore, che afferma: «L’immaginazione (in quanto facoltà conoscitiva produttiva) è molto potente nella creazione, per così dire, di un’altra natura a partire dalla materia che le dà la natura reale » –, Gilson compie una specie di innesto della “Legge Focillon” nel sistema di verità delineate dalla Scolastica, precisando però a un certo punto che Tommaso non ha mai dedicato una vera riflessione sistematica alle arti del bello, avvalendosi per il discorso metafisico del pensiero di Dionigi l’Aeropagita; nondimeno, aristotelicamente ha elaborato quella categoria del “fare” che è la ragione stessa dell’arte («la retta ragione delle cose che si fanno»), mentre ha sviluppato il discorso sul bello che fu oggetto della tesi di laurea di Umberto Eco, ancora oggi fondamentale, Il problema estetico in Tommaso d’Aquino.

E Gilson era, naturalmente, in imbarazzo a leggere che un tomista come Maritain scrivesse in Arte e Scolastica che «l’abilità manuale non fa parte dell’arte» (una posizione poi modificata quando ragionerà sull’arte moderna e su Picasso in particolare). Dobbiamo tener presente che il libro di Gilson, tradotto soltanto ora ma edito nel 1964, segue le sei lezioni che il filosofo tenne a Washington nel 1955, che uscirono rielaborate nel volume Pittura e realtà del 1958, a cui fece seguito un terzo saggio più inerente le questioni della metafisica, Introduzione alle arti del bello edito nel 1963. Tutt’e tre disponibili presso Morcelliana, fino a qualche anno fa questi saggi non erano mai stati presi in considerazione dal pubblico più ampio, eppure costituiscono un trattato frammentario, ma articolato, tra i più sorprendenti che si possono leggere oggi, perché si tratta di pagine nate da una riflessione teorica e filosofica che non cede mai alle mode o alle scappatoie specialistiche della critica, tanto meno alla riduzione delle belle arti a solo mezzo di comunicazione.

E in effetti Gilson era del tutto convinto che l’arte che cerca il bello non ha la funzione di esprimere qualcosa o lanciare messaggi, deve invece far cantare la forma nelle diverse materie che un’arte manipola (la poietica dal greco poiein, fare) attingendo il bello. Mi domando quanti artisti e critici oggi avranno la pazienza e la curiosità di leggere queste pagine acute e spesso anticonformiste rispetto alla vulgata imperante nel sistema dell’arte. Si potrebbe dire invece che ciò di cui parla Gilson è completamente ignorato dalla maggior parte degli attori di quel sistema: artisti, critici, giornalisti, curatori, direttori di riviste e di museo, editori ecc. Perché? Uno studioso altrettanto acuto, Vittorio Mathieu, morto quasi centenario nel 2020, recensendo il volume Pittura e realtà, nel 1960 notò che Gilson faceva mostra di una sua civetteria, quella di chi ama spaventare i lettori con serrati ragionamenti ma esibendo quella nonchalanche di «enunciare verità estremamente semplici, quasi ovvie, eppure paradossali », tanto che «si proverebbe qualche imbarazzo nel dire cose così semplici, se la loro negazione oggi non passasse per evidentemente vera». Secondo Mathieu, in Gilson c’era una consapevole rinuncia alla popolarità.

E in effetti per troppo tempo egli è stato un autore per teologi e filosofi, certo non per critici d’arte e letterari, sebbene le sue conferenze per il VII centenario della nascita di Dante nel 1965 siano ancora oggi un’opera magistrale, tradotta da oltre vent’anni (era il periodo in cui Gilson si occupava molto delle arti letterarie, dello stesso anno è la raccolta La scuola delle Muse, anch’essa tradotta, dove affonda lo stilo sul ruolo delle ispiratrici dei grandi artisti, come Petrarca con Laura, Baudelaire con Madame Sabatier, Wagner con Mathilde Wesendonk ecc.). Inquadrati come se rispondessero a un progetto organico i tre saggi di filosofia artistica lavorano all’unisono per definire lo spazio e la condizione dove l’arte, nella sua varietà, raggiunge il fine “gratuito” per antonomasia: la bellezza. Gilson non svaluta tutto ciò che sta fuori o in ambiti “funzionali” che possono anch’essi riguardare le arti plastiche, ma mette in chiaro che non ha come scopo primario la forma e il bello, e per questo non tene nel dire: non rientrano nelle belle arti.

Aggiunge, già in apertura di questo terzo libro: «Il bello è una proprietà inseparabile dell’essere, quindi caratteristica di ciascuna opera d’arte e la funzione dell’arte è produrre, non imitare». Si può qui concordare con Maritain nel dire che il concetto paolino di “nuova creazione” implica, nelle arti, la collaborazione dell’uomo alla produzione di forme che sono come estratte dalle materie, secondo appunto il nuovo ordine. Tralasciamo le singole distinzioni tra “Calo-logia”, “Filosofia dell’arte” e “Estetica”, esposte da Gilson in apertura del saggio. Vale la pena invece ricordare la definizione di forma che ci offre: è «la composizione che fa sì che una pluralità di elementi sia parte di un tutto e allo stesso tempo, per lo stesso motivo, lo renda un oggetto distinto», una unità, secondo il principio scolastico: forma dat esse rei. Dire di qualcosa che è privo di forma, osserva il filosofo, è come dire che non esiste. Sulle diverse vocazioni alla forma delle materie abbiamo già ricordato Focillon, ma Gilson precisa: «Tutte le qualità fisiche entrano nell’opera d’arte solo come qualità plastiche. Qui esse non sono più solamente costitutive dell’essere, ma, appunto, dell’essere bello».

Quando ironicamente dice che non si scriverà mai un’estetica più breve di Benedetto Croce nell’articolo Aesthetica in nuce, rende il titolo con concretezza: Estetica in un guscio di noce. E quando si discolpa da certe accuse che gli hanno rivolto i critici, precisando che il critico non ha per oggetto l’opera dell’artista, ma ciò che egli ne pensa, è fedele più che mai alla lezione di Focillon. Anche quando osserva che la storia comincia con la scrittura, ma l’uomo ha scolpito e dipinto molto tempo prima, introduce questioni che ancora oggi sono materia di riflessione. Oppure quando scrive che vi possono essere tecniche esecutive che producono esiti piacevoli o belli, senza che ne consegua «che l’arte che lo produce sia una delle belle arti», e cita il ballo di sala, l’equitazione, la scherma ecc. Così come distingue e svaluta certe arti decorative rispetto alle belle arti propriamente dette.

Anzi arriva a sostenere che talvolta la decorazione interna delle chiese fa danni invece che collaborare alla generale bellezza del luogo perché statue e quadri aprono una competizione con lo spazio: «Delle belle statue e dei bei quadri rovinano sovente delle belle chiese, non mancano neppure degli affreschi che guastano le pareti. L’arte decorativa se si afferma per se stessa, tradisce la sua funzione di arte decorativa». Sostiene, insomma, un posizione di umiltà che oggi è spesso disattesa da artisti e architetti. In fondo, l’immagine più prossima al pensiero di Guilson, rimane forse quella del legno da cui Geppetto caverà Pinocchio, solo dopo essersi posto la domanda: «che cosa se ne può fare?».

Di grande provocazione sono le pagine dove Gilson distingue fra poesia e romanzo, sostenendo che il romanzo non entra nel novero delle belle arti, mentre la poesia sì, perché la sua parola è la forma stessa non ciò che dice (non so quanti poeti oggi vi rientrerebbero). Nel libro dedica singoli capitoli all’architettura, la statuaria, la pittura, la musica, la danza, la poesia e il teatro ma non al cinema, del quale anzi diffida). E conclude che la filosofia «è forse la sola disciplina che possa rendere questo ultimo servizio alle arti del bello: riconoscerle per ciò che sono. Insistendo sulla specificità trascendentale del bello come bene della sensibilità» (grande scommessa sul valore della materia).

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