lunedì 29 gennaio 2018
L’attore al Piccolo Teatro Strehler di Milano nel ruolo del padre della psicanalisi. «Un uomo diviso tra la volontà di affermazione di sé e la consapevolezza di un fatale fallimento»
Gifuni tra Freud e il sogno esaudito: «Fare teatro è il rito della gioia»
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Secondo il regista Federico Tiezzi, mente immaginifica e rigorosa del teatro dell’ultimo mezzo secolo, è «una simbiosi armonica e perfetta fra parola e corpo», caso raro fra gli interpreti nostrani. Lui stesso dice di sé di «sparire in favore del personaggio, di volerne sentire il respiro fino a sintonizzarsi con la sua linea del suono«. Oggettivamente nel dialogare con lui si percepiscono vasta cultura, umiltà, passione e razionalità. Tutte peculiarità che anche stavolta ha messo totalmente al servizio dell’arte, in questo caso incarnando un personaggio epocale, cruciale, uno spartiacque imprescindibile nell’indagine sull’animo umano dalla fine del XIX secolo, l’inventore della moderna psicanalisi: Sigmund Freud. Ed è sul palcoscenico del Piccolo Teatro Strehler di Milano che incontriamo Fabrizio Gifuni dove fino all’11 marzo per due ore e mezza veste i panni dell’autore di quella che Stefano Massini, altro fervido uomo di teatro odierno, ha definito «la Bibbia della nostra contemporaneità»: L’interpretazione dei sogni. Massini ci ha pensato sette anni prima di creare una stesura drammaturgica ispirata al rivoluzionario libro dello scienziato viennese; Tiezzi che ne ha curato la regia non nasconde che si tratta di una delle sfide più ardue della sua carriera e Gifuni non ha avuto alcuna remora nell’aggirarsi nei meandri labirintici del cervello di quello che già dai suoi contemporanei fu visto come una sorta di Edipo vivente per la sua capacità di scrutare gli abissi della psiche umana e i suoi più terrificanti incubi.

Che cosa l’ha affascinata maggiormente di Freud?

«In primo luogo il coraggio, la caparbietà e la fragilità al di là degli stereotipi dello scienziato vincente che ha una risposta a ogni rovello onirico. È stato il primo ad avventurarsi in un territorio sconosciuto, consapevole che non gli sarebbe bastata una vita per capirne gli esiti. Il nostro Freud è diviso fra l’indubbia volontà di affermazione di se stesso e la profonda consapevolezza del fallimento a cui è destinato. Lui è il Prometeo che, conscio del dolore che subirà, comunque ruba il fuoco agli dei per donarlo agli uomini; è Giacobbe che tutta la notte lotta contro l’angelo e resta sciancato; è un povero vecchio ebreo condannato alla sconfitta. Da questo siamo partiti per non rimanerne schiacciati. Anche perché l’unico modo per me per accostarmi a personaggi di questa levatura è puntare sulle loro storture, fratture e ferite».

Freud ha teorizzato il conflitto fra vita voluta e vita vissuta tratteggiando l’uomo come una sorta di killer involontario dei propri quotidiani desideri. Lei ha mai vissuto questa dialettica o ha mai vestito nell’inconscio i panni dell’omicida dei propri sogni?

«In realtà no, perché quando verso i 22 anni feci il concorso all’Accademia d’Arte Drammatica lasciando gli studi di diritto fu come se avessi deciso di abbattere la distanza fra l’essere e il fare e da allora vivo un’assoluta aderenza fra sogno e realtà».

Quando è scoccata la scintilla del fuoco dionisiaco?

«Quando salii sul palcoscenico della scuola al liceo e interpretai Mercuzio in Giulietta e Romeo. In quell’occasione al termine di quelle poche repliche sentii nitidamente qualcosa mai avvertita prima che assomigliava molto da vicino alla felicità. All’inizio per un po’ di tempo cercai di nascondere quella scoperta come per preservarla, era talmente bella e preziosa che non avevo voglia di comunicarla subito. Poi questa comunicazione ha spaziato dal teatro al grande e piccolo schermo».

Come vive il Gifuni, premio Istrio 2006 e Ubu 2010 o David di Donatello 2014 per Il Capitale umano, queste due diverse dimensioni interpretative?

«Il teatro per me è un rito in cui una comunità condivide un’esperienza che passa attraverso la fisicità che rappresenta la forza e il peso specifico dell’arte teatrale specie in un’epoca in cui i corpi sembrano essersi smaterializzati nella rete, nel web. È nell’incontro fra i corpi in scena e in platea, è in questo campo magnetico e osmotico che si decide la partita dello spettacolo. Invece nel cinema mi affascina in particolare il lavoro sul dettaglio con la macchina da presa che può pedinare i movimenti interiori, la possibilità di lavorare sullo sguardo».

Perché non sopporta sentir parlare di cultura come “tempo libero”?

«È una delle grandi storture di oggi, come se il teatro dovesse essere destinato a una dimensione temporale di evasione e di obnubilamento. Bisogna decidere una volta per tutte: se la cultura rientra nel tempo di scarto allora sono inevitabili i tagli; se invece pensiamo che debba essere parte fondante del tessuto connettivo e della crescita di una comunità allora gli investimenti vanno considerati necessari e basilari».

L’ultima e più difficile domanda: come si fa a conciliare la vita dell’attore con la passione per la famiglia? E non è ammessa la risposta: “la qualità sopperisce alla quantità”.

«No, concordo, non vale assolutamente. E come si fa? È un bel dilemma. Si fa fronte con delle scelte e rinunce a cui si giunge con determinazione, con gioia e senza rammarico alcuno. I figli sono il bene più prezioso e tutto il tempo che non riesco a passare con loro quello sì che è un tempo sottratto».

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