giovedì 14 agosto 2014
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«Comico, drammatico, brillante e grottesco, secondo necessità. Giancarlo Giannini? Una specie di Michelangelo del set, uno che scolpisce i caratteri dei suoi personaggi convinto che un attore vero «meno fa più fa». È un teorico dell’arte drammaturgica della sottrazione, ma anche del trucco e del parrucco «perché l’attore – dice – è come un fanciullo che si traveste a Carnevale». Diventando una figura tanto reale che rischia di apparire finta. «Sì, perché lo spettatore al cinema si deve divertire e bisogna farlo entrare in una favola...». Giannini, a Locarno per ricevere l’Excellence Award Moët et Chandon, è stato uno dei protagonisti della retrospettiva dedicata dal 67° Festival del Film alla gloriosa storia della Titanus, dove è apparso in tre film: il musicarello di Lina Wertmüller Rita la zanzara con la Pavone, il dramma di Valerio Zurlini L’ultima notte di quiete a fianco di un tenebroso Alain Delon e Lili Marlen di Reiner Fassbinder. Giannini, qual è il pezzo migliore della sua ricca collezione di personaggi?«I personaggi per un attore sono come dei figli, piacciono tutti. Ma se dovessi sceglierne uno direi il Tunin di Film d’amore e d’anarchia. Per realizzare questa maschera mescolai tre dialetti lombardi diversi pensando a un contadino che unisse la stabilità di una quercia, lo sguardo di una mucca e il sorriso di un gattino. Doveva avere un passo robusto e pesante, per questo mi riempii le scarpe con due chili di piombo... Mi feci le orecchie a sventola, mi vestii con spesse maglie di lana e due paia di pantaloni, dovevo essere goffo. Perché le parole in un film incidono solo per il venti per cento. Anche allora mi trasformai, e cominciò, come sempre, la sfida con me stesso».Lei e stato uno dei protagonisti dell’ultimo atto della commedia all’italiana, con Lina Wertmüller e Mariangela Melato. Piacque al pubblico, un po’ meno a una certa critica. Ma oggi, rispetto a quei tempi, sembra buio pesto. Qual è lo stato di salute del nostro cinema? «È quasi morto, ma non solo da noi. Me lo diceva trent’anni fa Federico Fellini: “Andremo al cinema come si va al museo”. Aveva ragione. Intanto è morta la pellicola, adesso c’è il digitale con il quale pero siamo alle prime armi: si può inventare di più con questo mezzo, bisogna imparare a scrivere storie in modo diverso. Il film diventerà sempre più virtuale».L’altro giorno se n’è andato un grande attore, Robin Williams. Lei lo ha conosciuto?«Certo! A me, che sono innanzitutto un perito elettronico, chiesero di costruire per lui una musical jacket, un giubbotto polifunzionale per il ruolo di Leslie Zevo in Toys. Era un marchingegno con 2.500 tra voci, parole ed effetti sonori, ci misi sei giorni e sei notti senza dormire per realizzarlo. Lui mi telefonava sempre per sapere come doveva usarlo... Poi se lo tenne, per ricordo. Ci incontrammo un giorno a Napa, nella tenuta di Francis Ford Coppola che ci aveva invitati a uno dei suoi soliti banchetti. Ci divertimmo molto. Come accadeva quando mi ritrovavo con Marcello Mastroianni: le risate che ci facevamo... Oggi invece, personaggi così non ce ne sono quasi più. Poca roba».Ma lei ama solo il cinema di una volta?«Lo prediligo. Tra i registi di oggi apprezzo molto Tornatore e Sorrentino. Può piacere oppure no, ma La grande bellezza ha vinto un Oscar!». Tra gli oltre cento film che lei ha interpretato ce n’è uno, incompiuto, che non abbiamo mai visto: e “Don Camillo e i giovani d’oggi” del 1970, l’ultimo della saga guareschiana, quello dove Fernandel ebbe un malore, poco prima di morire. Lei era il figlio ribelle di Peppone-Gino Cervi. Cosa ricorda di quell’esperienza?«Il regista era il francese Christian-Jaque, un grande. Imparai molto da lui. Girammo a Guastalla d’estate, faceva un caldo bestiale, c’erano le zanzare e non riuscivo a dormire di notte. Mi ricordo che nelle pause stavo sempre a mollo in una vasca da bagno. E quando mi fecero un primo piano, l’unico del film, mi addormentai davanti alla macchina da presa. Fernandel era già malato e svenne, tentarono di farlo lavorare per le ultime scene mettendolo seduto su una tavola e inquadrandolo solo dalla vita in su. Ma purtroppo non ce la fece. E il film venne interrotto».
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