sabato 21 marzo 2020
Si è spento a 74 anni un maestro del giornalismo sportivo, unico erede di Gianni Brera. Memorabili i suoi pezzi in cui riusciva a mescolare sport, musica e poesia
Gianni Mura

Gianni Mura - Ansa

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Se ne è andato Gianni Mura. Ma forse no, è solo uscito dalla “Nuova Arena” di Gianni Mele o dal “Vecchio Porco” di Gerri Mele (le due seconde case fraterne, i suoi rifugi enogastronomici milanesi) a prendersi una boccata d’ossigeno - come Andrea Camilleri - , a fumarsi una sigaretta. Il suo cuore grande e generoso si è fermato (a 74 anni) a Senigallia, davanti alla Rotonda sul mare di Fred Bongusto: «Sì, ma quella canzone a Franco Migliacci glie l’ha ispirata una rotonda dalle tue parti, sul Lago Trasimeno», mi disse in una di quelle sere in cui ci perdevamo in uno dei suoi giochi preferiti, la “Mnemonica muriana”. Cos’è? Si sceglie una lettera, tipo la “D” e a giro ci si sfida a “memoria” cercando di trovare il calciatore («Di Bartolomei») o il cantante («Donovan). Sfide all’ultimo grappino, annusando la notte ai tavoli dei fratelli Mele, arbitri imparziali e divertiti in trent’anni di blitz notturni (dopo l’anticipo o posticipo di campionato) e visite gradite «del Gianni».

Conoscere Gianni Mura è stato un privilegio cominciato sulla piazza IV Novembre di Perugia, alla vigilia di una partita della Nazionale che lui seguiva da inviato di Repubblica. Il suo giornale, il mio preferito da quando ero un ragazzino di un Liceo. Perché lì dentro a quelle pagine leggevo mastro Brera e poi il suo allievo prediletto, l’unico vero erede dell’Arcimatto, Gianni Mura. Ma torniamo a quel primo incontro, testimone il collega e amico Alberto Caprotti. Il Maestro avanza e quando mi presento mi abbraccia come un fratello minore tornato dal fronte. «Ti leggo, sei bravo sai... Ma tu sei in sede a Milano vero?», mi chiese. E io che all’epoca ero l’ultimo degli abusivi di provincia e l’ultimo dei collaboratori di Avvenire, risposi con uno speranzoso «magari». Passò poco tempo che grazie a Caprotti (su segnalazione del compianto Domenico Montalto) salii a Milano, all’Avvenire.

E Milano, per me provinciale bianciardiano, voleva dire anche serate a cena con Gianni Mura, e ripasso dal vivo dei Cattivi pensieri settimanali, la sua storica rubrica che ogni domenica leggevo prima di ogni altra cosa al mondo. Quelle due colonne di sapienza applicate allo sport in cui le volte che sono stato citato era come prendere una seconda laurea. Ecco Gianni non so se te l’ho mai detto, ma se ho fatto questo mestiere di giornalista (anche sportivo) lo devo al tuo padrino Brera, ma soprattutto a te. In ogni tuo pezzo ho sempre ritrovato l’odore del pane appena sfornato e la migliore annata di Barolo. I tuoi erano articoli dal retrogusto francese, sorsate di Tour da servire al popolo, che magari in Francia non c’andrà mai. In questi tempi di “fogli morti”, mi hai insegnato a scrivere sempre di pancia e di cuore e ad osservare il mondo con occhio pasoliniano. Oltre a una partita di calcio e a un campione c’è di più. C’è l’uomo, c’è la vita, la poesia. Avevamo in comune la passionaccia per i “cantanti-poeti”: Paolo Conte, Luigi Tenco, ma soprattutto ci siamo ispirati alla nostalgia romantica di Sergio Endrigo.

Qualche volta ci siamo scontrati, e non era difficile che accadesse, perché Mura era uno spigolo tenero che seguiva la sua linea ritta da hombre vertical. Impossibile fargli cambiare direzione, più facile fargli rivedere un’opinione, e se pensava di aver sbagliato la sua pubblica ammenda era scritta e firmata in pagina. Si può sbagliare, ma è necessario farlo «da professionisti». Mura in un mondo come quello dell’informazione, fatto di ruffiani, cappi al collo e qualche “bella gioia” arpiniana, ha giocato nell’unico ruolo che conosceva, da battitore libero, con un occhio rivolto al futuro e l’altro a difesa della tradizione. E forse in più di Brera aveva l’ironia sferzante che rasenta quella di Flaiano. Un esempio per tutti? Gli auguri di buon anno (1991): «Auguri a Bianchi (Ottavio, allora allenatore della Roma) perché alla domanda «cosa pensa di Dio?, non risponda: “Lo sapete che non parlo mai dei singoli”». Un giocoliere delle idiomatiche, uno che se azzeccavi l’iperbole «ci vediamo doping» e la giusta metafora gli strappavi l’applauso e il brindisi, con sorriso. Non sorrideva molto Gianni e tutte le volte che ci sono riuscito a farlo ridere, beh quell’attimo me lo sono appuntato al petto come una medaglia al valore.

Mi mancherà tanto la tua vaticinante Palla di lardo, le pagelle dei Cento nomi dell’anno in cui tra un fuoriclasse e un libro di sport consigliato (comprato a sue spese alla libreria Lirus... non c’è più neanche quella, ha chiuso) ci mettevi dentro i fagioli di Sarconi della mamma di Mimmo Mastrangelo o il pecorino - fiore sardo - di Giuseppe Cugusi. «Voto 10». Il più cattivo dei pensieri è che tante cose mi mancheranno, e altrettante sono quelle che vorrei raccontare ancora... Aneddoti di amici comuni e piccole grandi serate condivise (da noi ormai “senzaMura”, come dice l’amico Bruno Pizzul). Transit! Ma ho un groppo in gola e la tastiera si ferma qui, perché a Gianni la retorica pelosa e i funerali con folla piangente non sarebbero piaciuti. E in questo, Qualcuno lassù, che lui rispettava e di cui non parlava, gli ha concesso l’onore del silenzio assordante del tempo assurdo che stiamo vivendo. Voglio salutarti Gianni, come hai ricordato una volta il nostro grande “fratello” Beppe Viola: «Quando c’era Beppe, Milano era una città viva». Ecco, oggi più che mai, con il cuore pieno di lacrime ho un solo pensiero: quando c’era Gianni Mura, Milano era una città viva. Che la terra ti sia lieve, amato Maestro mio.

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