venerdì 20 ottobre 2023
La Bibbia è intessuta del legame carne-eternità, mostrato da Gesù in se stesso. Dio si può incontrare a ogni angolo di strada, arte e amore lo sanno indicare. La lectio di Ravasi a Grosseto
Il cardinale Gianfranco Ravasi

Il cardinale Gianfranco Ravasi - Siciliani

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Proponiamo alcuni passi della lectio magistralis All’etterno dal tempo (Paradiso, 31, 38) che il cardinale Gianfranco Ravasi ha tenuto in apertura della Settimana della Bellezza nel Duomo di Grosseto, sabato 21 ottobre alle ore 16.30

«Il Signore, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo e quindi noi, ancora vivi, saremo rapiti con loro». Siamo nella Prima Lettera che Paolo indirizza ai cristiani di Tessalonica (4,16-17). Il passo si innesta nel filone escatologico, affrontando il tema del ritorno di Cristo alla fine della storia. Lo scenario che san Paolo tratteggia è, però, modulato sul linguaggio apocalittico a quel tempo dominante che ricorreva a immagini, metafore e simboli specifici e piuttosto forti. L’Apostolo cerca di risolvere un quesito che rodeva l’anima dei cristiani tessalonicesi, convinti che quell’ultimo evento fosse imminente. Essi domandavano: in quell’istante supremo in cui risorgeranno coloro che sono morti in pace e in comunione con Cristo, i cristiani ancora vivi quale sorte avranno?

L’Apostolo ricalca l’apparato delle visioni epifaniche apocalittiche: cori celesti, trombe divine, vortici, nubi, cieli squarciati. Non è, quindi, una descrizione puntuale, ma una rappresentazione simbolica di quel passaggio dal tempo all’eterno, dallo spazio terreno all’infinito di Dio. I morti e coloro che sono ancora viventi entreranno anch’essi nell’orizzonte trascendente dell’eternità: ai Corinzi, poi, dirà che «non tutti dovremo morire [in quel momento estremo], tutti però saremo trasformati» (1Cor 15,51). Soddisfatta questa curiosità dei Tessalonicesi, ciò che a Paolo preme è ribadire che il destino di tutti i fedeli è quello di «andare incontro al Signore […] e così essere per sempre con lui» (4,17).

A questo punto vorremmo proporre una riflessione più sistematica e approfondita sul tema dell’eternità in contrappunto col tempo che è la nostra attuale coordinata fondamentale. Una caratteristica capitale della religione biblica e quindi del cristianesimo e dell’ebraismo è il loro legame proprio con la storia e, quindi, con la temporalità. Dio non rimane relegato nei cieli luminosi dell’infinito e dell’eterno, ma decide di incamminarsi per le strade polverose della storia umana e dello spazio terreno. Emblematica è la celebre frase che è incastonata in quel capolavoro teologico e letterario che è l’inno che funge da prologo al Vangelo di Giovanni: ho Lógos sárx eghéneto, il Verbo, la Parola divina che era «in principio», che era «presso Dio», anzi che era Dio, si intreccia intimamente con la sárx, cioè con la «carne», la fragilità, il limite temporale e spaziale dell’umanità. Non siamo, quindi, di fronte a una visione solo storicistica per cui tutto si esaurirà nel tempo.

La storia, invece, per la Bibbia è la sede delle epifanie divine: non per nulla il cosiddetto “Credo storico” di Israele è tutto ritmato non su definizioni astratte e “teo-logiche” di Dio ma sulle sue azioni sperimentabili nelle vicende del popolo ebraico: la chiamata dei Patriarchi, la liberazione nell’esodo dalla schiavitù faraonica, il dono della terra promessa (si leggano, ad esempio, il Salmo 136 o Giosuè 24). Come ha intuito Marc Chagall nei suoi famosi dipinti, si può incrociare Dio appena svoltato l’angolo della casa, all’interno del modesto villaggio ebraico; gli angeli entrano ed escono dai comignoli delle case e nell’amore di una coppia si intravedono i simbolismi celebrati dal Cantico dei Cantici.

In questa luce tempo ed eterno si annodano tra loro, pur essendo così differenti. Certo, noi che guardiamo o viviamo nella prospettiva del tempo sentiamo ancora remota la pienezza dell’eternità. Non per nulla Paolo nella Lettera ai Romani (8,18-27) usa immagini di parto, di attesa, di tensione impaziente perché il nostro tempo è “pesante”, segnato dal male e scandito dal dolore e dalla morte. Gesù ricorrerà al simbolo del seme di senape che è piccolo e sepolto dalla terra e che deve vivere una lunga avventura prima di crescere in albero frondoso. Il Regno di Dio è già «in mezzo a noi», si dice nei Vangeli, ma Dio non è ancora «tutto in tutti», come proclama Paolo, e non si è ancora raggiunta la promessa dell’Apocalisse secondo la quale «la morte non ci sarà più» (21,4).

Tuttavia se ci poniamo dall’angolo di visuale di Dio, cioè nell’eternità, non si ha − come accade a noi che siamo nel tempo − un “prima” e un “dopo”. Tutto è contratto e condensato in un punto, in un istante, in un evento unico e compiuto. In esso c’è già la pienezza di quel seme, c’è la meta di quell’attesa, ci sono già la salvezza e il giudizio, la morte e la risurrezione, come dichiara Gesù in quella notte a Nicodemo: «Chiunque crede nel Figlio dell’uomo ha già la vita eterna […] Chi crede in lui non è condannato, ma chi non crede è già condannato» (Gv 3,15.18). E più avanti nello stesso quarto Vangelo si leggono queste altre parole di Cristo: «Chi ascolta la mia voce e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita» (5,24).

Con l’Incarnazione, dunque, si ha una unione intima tra due realtà che sono antitetiche, il tempo e l’eterno. Già l’Antico Testamento, presentando una Rivelazione divina innervata nella storia e una religiosità che invitava a non decollare dall’orizzonte terreno verso cieli mitici e mistici per incontrare Dio e la sua salvezza, aveva preparato l’ingresso di Cristo nel mondo. L’Incarnazione del Figlio di Dio è, quindi, coerente con l’annunzio dei profeti e dei sapienti di Israele e rende il tempo e lo spazio irradiati dall’eterno e dall’infinito. È questo il senso della risurrezione finale. Essa è una ri-creazione trasfigurata, è l’introduzione dell’essere creato in un orizzonte senza fine e senza limiti.

Per riuscire a scoprire e a sentir pulsare questo abbraccio del tempo con l’eternità, realtà in sé distinte eppure intrecciate, in attesa di una pienezza suprema, è necessario avere un canale di conoscenza superiore, cioè la visione della fede che sa perforare la pellicola esteriore del flusso temporale per cogliervi sotteso l’istante perfetto e supremo dell’eterno divino. È ciò che esprime in modo intenso e denso il grande poeta Thomas S. Eliot in alcuni versi dei suoi Quattro Quartetti (1943): «Afferrare il punto di intersezione tra l’eterno / e il tempo è un’occupazione da santo − / non tanto un’occupazione, ma qualcosa che è donato, / e ricevuto, in un morire d’amore durante una vita, / nell’ardore, nell’abnegazione e nell’abbandono di sé».

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