domenica 7 giugno 2020
Con quattrocento opere grafiche e libri d’artista si apre al M.a.x. di Chiasso un’esposizione tra le più importanti mai realizzate sull'artista svizzero
Alberto Giacometti

Alberto Giacometti - Ernst Scheidegger / © 2020 Stiftung Ernst Scheidegger-Archiv, Zurich

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Il m.a.x. museo di Chiasso apre domani una mostra dedicata all'opera grafica di Alberto Giacometti, non arte minore ma componente essenziale per comprendere il linguaggio e la ricerca di uno degli artisti più importanti del Novecento. Il curatore Jean Soldini ha scritto in esclusiva per Avvenire un testo che ne ripercorre i punti cardine.

Il coraggio non mancava a Alberto Giacometti; nella sua vita ha via via consumato ogni conquista rassicurante. Rimettersi a copiare una testa non sembrava un’idea molto originale per chi, all’inizio degli anni 30, era fra gli artefici più importanti del Surrealismo. Alla fine del ‘34, rompe con quel movimento che pur l’ha marcato profondamente lasciando tracce su di lui anche dopo il suo ritorno al modello. Una scelta, questa, che non corrisponde a un “tornare indietro” e che nelle sue mani ha prodotto esiti inattesi e appassionanti.

Che cosa si propone Giacometti? Prima di tutto di stare al vedere senza mescolarlo con il sapere. Per esempio, se guarda una testa frontalmente non può registrarne meccanicamente la nuca; sa che c’è ma non la vede realmente. Il vedere deve inoltre darsi in un’“ora” che è completamente imprendibile perché si trasforma subito in un “aver visto”, in un residuo di visione ci dice l’artista. L’apparenza, in un adesso inafferrabile, è per lui il nocciolo stesso del reale. E quando afferma che insegue la somiglianza assoluta e non l’apparenza, non si smentisce. Cerca la somiglianza assoluta con l’apparire in tutta la sua bellezza; non l’apparire diminuito, umiliato, indegno di ciò che è. Non l’apparenza come l’equivalente di “a prima vista”.

Alberto Giacometti André du Bouchet Illustration retenue pour le frontispice pour André du Bouchet, Dans la chaleur vacante, Paris, 1961 Probable illustration créée (mais non retenue) pour André du Bouchet, Le Moteur

Alberto Giacometti André du Bouchet Illustration retenue pour le frontispice pour André du Bouchet, Dans la chaleur vacante, Paris, 1961 Probable illustration créée (mais non retenue) pour André du Bouchet, Le Moteur - .

Il fare e le parole di Giacometti non entrano in risonanza solo con il clima fenomenologico francese coevo ma pure, per esempio, con il pensiero dello zoologo e antropologo elvetico Adolf Portmann. Questi era una figura di primo piano nella cultura europea tra gli anni 40 e gli anni 60. In La forma degli animali (1948) scrive: «Dovremo convincerci che ciò che vediamo è la cosa più importante; quell’involucro visibile non occulta l’essenziale. Non facciamo come i cacciatori di tesori che li immaginano sempre a una grande profondità».

L’apparenza per Giacometti è ugualmente «una specie di nocciolo di violenza». Lo scrittore Jean Genet ci viene in aiuto distinguendo tra brutalità e violenza. La brutalità è del potere con le sue diverse forme d’oppressione, mentre «violenza e vita sono pressappoco sinonimi». La violenza è quella del «seme di grano che germoglia e fende la terra gelata» (Genet). Ciò che attira l’attenzione di Giacometti sono cariche d’essere con la loro veemenza. Il che significa: quel che vede gli interessa perché esiste veramente, ostinatamente, violentemente.

L’artista non si preoccupa in primo luogo di questioni del tipo: la testa, che modello o disegno è quella di un giovane, di un vecchio, è femminile o maschile; è la testa di mio fratello o di mia madre. Sono aspetti importanti, ma in quanto spinti in avanti da forze vitali anonime. Quel nocciolo di violenza con cui egli si confronta è poi il contrario di qualcosa di compatto e statico. Ciò che vede è «movimento continuo dall’interno, dall’esterno», si rifà senza tregua, non ha una vera consistenza, ha un lato trasparente.

Fermiamoci un istante. Se tanti artisti sono a volte insoddisfatti del loro lavoro, Giacometti aveva tutte le ragioni d’essere perennemente scontento. Il suo obiettivo era di una grande concretezza e, nel contempo, era inarrivabile. Movimento e trasparenza: sono le caratteristiche del visibile che Giacometti ravvisa quando lavora. La speranza di riuscire a dominare ciò che vede si rivela presto illusoria. Cadono le posizioni preordinate: l’artista e il modello. Il primo si trova subito non più davanti a qualcosa, bensì in mezzo a cariche d’essere, al loro apparire.

Quale strumento migliore del disegno per cercare d’inseguire, di stimare almeno un po’ il loro manifestarsi come movimento e trasparenza più o meno nitidi e intensi? Il disegno è stato ampiamente praticato dall’artista e nel suo orizzonte si situa la grafica che è il tema di questa esposizione. Per la prima volta è presentato l’insieme dell’opera incisa e litografica giacomettiana. All’inizio, nel 1917-18, incontriamo la xilografia; tra il 1933 e il 1935, l’artista utilizza il bulino. Dal 1946 la sua attività grafica sarà costante e abbondante; avremo ancora per poco tempo l’incisione a bulino, ma sarà l’acquaforte a prendere il sopravvento. Dal 1949 vi affiancherà la litografia.

Se prendiamo il disegno e la grafica tra la metà degli anni 40 sino alla fine degli anni 50, osserviamo una circolazione crescente del segno. Dal 1958 alla morte, quest’ultimo si fa particolarmente leggero e fulmineo. Il precedente equilibrio tra velocità e lentezza lascia il posto a quella che potremmo chiamare velocità pura. A volte, il segno sembra indipendente dal gesto della mano. È quanto si vede bene nella serie di litografie Paris sans fin. Non sono istantanee di Parigi, ma il risultato di un rapido attraversamento della città come moltitudine di forze. A volte in senso letterale, quando Giacometti disegnava con la matita litografica, seduto nella decappottabile che aveva regalato a Caroline. Il risultato: immagini in cui il segno appare simile a limatura di ferro che si addensa o si rarefà in un campo magnetico.

L’esposizione non segue un percorso prettamente cronologico; neppure si organizza per nuclei tematici. Sei sono le sezioni: L’avvio di una grande passione; Dall’attrazione conflittuale all’attesa di una presenza, Difficile fedeltà all’apparire e tracce surrealiste, Lo spazio e gli oggetti irrequieti, L’insostituibile si rifà senza tregua e “Sans fin”. Non soloParis sans fin.

In estrema sintesi possiamo dire che buona parte del materiale esposto si divide in due grandi gruppi. Un primo gruppo, dove abbiamo pagine assai piene, popolate di tante presenze. Queste interagiscono, interferiscono tra loro, a tratti sembrano farsi avanti a gomitate. Il secondo grande gruppo comprende, invece, fogli in cui hanno il sopravvento il vuoto e la figura solitaria avvolta da un alone di silenzio. Sono acqueforti e litografie che più facilmente fanno pensare alle celebri sculture filiformi dell’artista (come Femme de Venise II esposta a Chiasso). Sia che si prenda il primo gruppo di opere (una molteplicità di presenze su un foglio) sia che si prenda il secondo gruppo (la figura, l’oggetto solitario), alla base vi è sempre e solo l’attività frenetica, la violenza positiva di ciò che, agli occhi dell’artista, diventa la più grande meraviglia del mondo: «se penso perfino che la più grande meraviglia delle meraviglie in architettura non potrebbe impressionarmi di più di questo bicchiere, non vale veramente la pena che vada fino in India per vedere questo o quel tempio, quando davanti a me ho ancora di più».

La realtà che è movimento, quel movimento che è meraviglia delle meraviglie non può mai essere familiare. Diventa sempre straniero. Un uomo si trasforma in «una specie di sconosciuto totale, meccanico». Per questa ragione Giacometti può dire, mentre ritrae per l’ennesima volta il fratello, che non lo riconosce più. Non significa che non conti Diego nella sua singolarità. È anzi il contrario. Forza, attività sono solo singolarità; a meno di non cadere nell’astrazione. Quel movimento, quell’attività frenetica forte e fragile che è essere, meraviglia delle meraviglie spazza ogni interesse per il senso o per l’assenza di senso.

L’approccio giacomettiano non è antropocentrico e così egli mette in atto una resistenza straordinaria a ogni nichilismo triste. Anzi, se volete un antidoto alla tristezza questo è Giacometti. Un antidoto alla tristezza nei termini in cui ne parla Spinoza: ciò che depotenzia la forza con cui perseveriamo nell’essere. L’artista bregagliotto è l’opposto delle persone amare e infelici di cui diceva un giorno il filosofo G. Deleuze in un suo corso: «Non vedono niente, non sanno vedere. Ecco, ci sono persone che non sanno vedere. Sì, sono gli stessi la cui potenza vitale non cessa di diminuire».

Per Alberto Giacometti, l’apparire che è meraviglia, è realtà fatta insieme, è ritrovarsi in mezzo a essa e non di fronte a essa. È esperienza silenziosa prima e dopo l’“io” con le sue pretese. Perseverare nell’essere è questo e forse a questo è dovuta la leggerezza di quei tanti fogli di grafica che, sulle pareti del M.A.X. di Chiasso, si sporgono, si ritirano, oscillano, si accarezzano come fanno gli alberi con i loro rami.

(©Jean Soldini, Ginevra, 4 giugno 2020)

Alberto Giacometti Triple portrait de Pierre Loeb II Illustration non retenue pour Pierre Loeb, Regards sur la peinture, Paris, 1950 1949-1950 Acquaforte 11,9 x 8,3 cm, le coup de planche Collezione Eberhard W. Kornfeld, Berna

Alberto Giacometti Triple portrait de Pierre Loeb II Illustration non retenue pour Pierre Loeb, Regards sur la peinture, Paris, 1950 1949-1950 Acquaforte 11,9 x 8,3 cm, le coup de planche Collezione Eberhard W. Kornfeld, Berna - .

Chiasso (Svizzera), m.a.x. museo​Alberto Giacometti (1901-1966)
Grafica al confine fra arte e pensiero
Fino al 10 gennaio 2021

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