venerdì 15 dicembre 2023
Le vicende della Compagnia rilette attraverso le “indipetae”, le lettere in cui i novizi chiedevano al Generale di poter evangelizzare Paesi lontani
Missionari gesuiti a Shembaganur, India (1900-1910 circa)

Missionari gesuiti a Shembaganur, India (1900-1910 circa) - Il Mulino/Tallandier/Bridgeman

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«Che cosa l’ha spinta a essere gesuita piuttosto che sacerdote diocesano o di un altro Ordine?». «Quello che più mi è piaciuto della Compagnia è la missionarietà, e volevo diventare missionario […]. Ho scritto al Generale […] che era il Padre Arrupe, perché mi mandasse, mi inviasse in Giappone o in un’altra parte. Ma lui ha pensato bene, e mi ha detto, con tanta carità: “Ma Lei ha avuto una malattia al polmone, quello non è tanto buono per un lavoro tanto forte”, e sono rimasto a Buenos Aires. Ma è stato tanto buono, il Padre Arrupe, perché non ha detto: “Ma Lei non è tanto santo per diventare missionario”: era buono, aveva carità». Così, papa Francesco rispondeva a braccio a un interlocutore nel giugno del 2013, nel corso d’un incontro con gli studenti delle scuole gesuitiche d’Italia e Albania radunati nell’aula Paolo VI, in Vaticano. Nelle sue parole, il riferimento a una prassi secolare.

Jorge Mario Bergoglio, novizio – nei primi anni Sessanta – della Compagnia di Gesù, non aveva fatto altro che scrivere una «littera indipeta», desiderando recarsi in Giappone, allora in fase di ricostruzione post-bellica. Di che si trattava? Siamo di fronte a una crasi tra le parole «Indias» e «petentes». Espressione con cui si era soliti indicare le lettere di coloro che “chiedevano le Indie”: «petebant Indias». Suppliche, insomma, inviate dai gesuiti al proprio superiore generale in cui era espresso il desiderio di partire in missione in Oltremare, verso le «Indie». Bergoglio non faceva altro che dare seguito a una tradizione antica, risalente alla metà del XVI secolo, di cui fornisce, ora, un affresco impareggiabile per accuratezza e sistematicità Emanuele Colombo, professore associato alla DePaul University di Chicago, dove insegna Introduction to catholicism, nel suo Quando Dio chiama. I gesuiti e le missioni nelle Indie (1560-1960), fresco di stampa per Il Mulino (pagine 296, euro 28,00).

Le «indipetae» costituiscono una fonte di eccezionale importanza per lo studio della Compagnia di Gesù. Non a caso, sono state oggetto d’innumerevoli studi, in buona parte ancora in corso. Oltre 16.000 lettere relative all’Antica Compagnia – e, dunque, al periodo compreso tra il 1540 e il 1773, allorché l’Ordine fu soppresso per opera di papa Clemente XIV – sono conservate a Roma presso l’Archivio centrale della Compagnia di Gesù, in un fondo – si può dire – che non ha pari in altri Ordini religiosi, né per consistenza né per longevità. Altre 8.000 circa, risalgono al periodo posteriore alla ricostituzione del 1814, giungendo sino al Concilio Vaticano II. Una documentazione imponente, dunque, la cui peculiarità è quella di toccare corde molteplici, pubbliche e private: una documentazione capace di fornire innumerevoli notizie amministrative, dottrinali, pastorali, spirituali.

L’obiettivo dei giovani gesuiti – obiettivo quantomai nobile – era quello di convincere il superiore che Dio li aveva chiamati due volte: la prima, a lasciare il secolo, entrando nella Compagnia; la seconda, a lasciare la propria città, il proprio ambiente – oggi diremmo, la propria comfort zone – per oltrepassare l’Oceano e dedicarsi alle missioni in terre lontane. Sogno romantico, forse, di religiosi ardenti d’amore per l’abito, il Cristo e l’umanità intera. In realtà, un imperativo per ogni cristiano. Le «indipetae» si sono prestate a molte letture. Recentemente ci si è accostati a esse per studi di storia delle emozioni o, ancora, per approfondire la storia delle vocazioni o analizzare lo sviluppo dell’idea di missione, con particolare riguardo all’ultimo secolo. Come nota Colombo, esse si inseriscono a pieno «nella tradizione gesuitica. Ignazio di Loyola aveva raccomandato ai primi compagni di scrivere lettere per colmare la distanza che li separava e nelle Costituzioni (le regole della Compagnia) considerava la corrispondenza uno strumento indispensabile per l’“unione dei membri di questa congregazione con il loro capo e tra di loro, dato che essi sono così sparsi nelle diverse parti del mondo tra fedeli e infedeli”».

Attraverso il loro studio accurato, frutto d’una frequentazione quotidiana – è quanto traspare in diverse parti del libro –, l’autore restituisce una storia avvincente e accurata della Compagnia e del suo slancio missionario: una storia della vocazione missionaria, potremmo dire, e, naturalmente, delle suggestioni culturali, dell’immaginario, dei sogni che l’hanno sorretta e alimentata nel tempo. Una storia esauritasi – o, meglio, trasformatasi – negli anni Sessanta del secolo scorso. La definizione delle «Indie», concepite, inizialmente, come terre lontane, era mutata da tempo. Il mondo si era velocemente allargato: le candidature alle missioni provenivano, ormai, da province extraeuropee. Lentamente, la tradizione delle «indipetae» sarebbe scemata in favore d’una presenza differente ma non meno missionaria, capace di dialogare con la modernità. Il libro di Emanuele Colombo – impreziosito, peraltro, da illustrazioni e foto d’epoca – è testimone di questa storia, restituita, ora, in tutta la sua complessità.

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