martedì 21 gennaio 2020
La città di Amelia celebra con una mostra il figlio adottivo di Tiberio, morto probabilmente avvelenato e forse su mandato stesso dell’imperatore nel 19 dopo Cristo
La statua bronzea di Germanico nella la mostra multimediale ad Amelia (Terni)

La statua bronzea di Germanico nella la mostra multimediale ad Amelia (Terni)

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Se a favorire il rientro da un esilio fossero le suppliche e non l’orgoglio, la dedica mutata nei Fasti di Ovidio, da Augusto – prima inflessibile e poi morto – al giovane generale-letterato Germanico avrebbe forse portato a qualcosa. Ma era una supplica e il nipote di Augusto su questo non poteva far niente senza il padre adottivo Tiberio. Che non volle farne niente. Nerone Claudio Druso Germanico (15 a. C.-19 d. C.) – che la città di Amelia celebra con la mostra “Germanico Cesare… A un passo dall’impero” ancora per tutto gennaio – era nipote di Marco Antonio e di Ottaviano, per via della madre Antonia figlia del primo e nipote del secondo. Ma l’animo equilibrato, mite e liberale non lo prese che da se stesso e dal padre Druso, da cui ereditò il soprannome, nato dalle vittorie sui germani, prima di confermarlo con le conquiste proprie. I natali illustri però non sono garanzia di nulla: Caligola sommava alle stesse origini quella da Germanico, essendone il figlio, ma non seppe ricavarne che pochezza d’animo e la famosa perversità. E bastano i soprannomi: Germanico deriva il proprio dalle vittorie sui popoli più temuti dai romani, insieme ai Parti; Caligola, come è noto, dai sandali dei soldati.

Vedendosi senza validi successori, Augusto impose a Tiberio l’adozione di Germanico diciannovenne, che già dava a vedere chi fosse. E il giovane vendicò la terribile disfatta di Varo, vittoria che Augusto non fece in tempo a vedere. Ma Tiberio fermò la sua campagna in Germania prima che la gloria crescente si consolidasse un po’ troppo. Lo richiamò e lo mandò a intimidire i Parti affiancandogli il più infido dei compagni: Calpurnio Pisone. Il quale senza alcun riguardo per l’autorità, di Germanico e di Tiberio, lo avversava in ogni modo. Fino forse al veleno: è la vicenda più nota e la più oscura. E tutto può esser stato possibile: l’implicazione di Pisone nella morte o la sua estraneità; quella di Tiberio come mandante, oppure no. Nell’inchiesta che seguì Tiberio sembrò alquanto tiepido nella volontà di verificare i fatti, poco maldisposto verso Pisone. Poi con un brusco mutamento degli eventi – non del volto dell’imperatore che quanto più restava impassibile, scrive Tacito, tanto più il tremore si diffondeva nelle ossa dell’interessato – Pisone si sottrasse col suicidio alla condanna ormai certa. Tacito è noto da che parte stia. E la verità, se si può trovare da qualche parte, non sarà tra gli storici minori: il grande storico è anche il più attendibile.

Ma l’eliminazione dei diretti avversari, compresi figli o madri, non è mai stata un’anomalia. Così Tacito è ancora il più penetrante nell’avvicinarsi alla verità, ma chi può essere sicuro di qualcosa? Lo scrive lui stesso: «i grandi eventi si presentano sempre enigmatici, perché taluni danno per sicuro quanto, bene o male, hanno sentito, altri mutano la verità nel suo contrario, e la posterità non fa che accrescere queste deformazioni». I primi tre libri degli Annali valgono da soli un breve, drammatico romanzo in cui grandeggia la figura del generale e scrittore. Ma non è stato il suo valore di generale a oscurare le qualità del lette- rato, molto minori anche se varie.

Sappiamo che fu un abile oratore, che scrisse commedie in greco, che fu autore di almeno uno dei due epigrammi che gli sono attribuiti. Il testo più cospicuo che gli è sopravvissuto è però la libera traduzione di parte – 725 esametri – dei Fenomeni di Arato, il poemetto astronomico su cui si sono provati altri, il più famoso e abile dei quali fu Cicerone. La traduzione dei Fenomeni è apprezzabile, malgrado l’aridità della materia. Ma chi è riuscito a fare vera poesia, non semplice informazione o commento, con i pianeti, prima o dopo Germanico? Molti dei primi filosofi, involontariamente e proprio perché “frammentari”. «Per gli stoici il sole è una massa infuocata e intelligente che proviene dal mare – scrive un commentatore –. L’acqua delle sorgenti e degli stagni eleva invece vapori dolci e miti alla luna». Che il sole e la luna non tramontino ma si spengano e si riaccendono è uno di quegli “errori popolari degli antichi” tanto suggestivi da toccare appunto la poesia. E certi frutti nutriti dalla luce “femminile” della luna non hanno bisogno di commento: «E infatti, in quanto la luna emette raggi deboli, più femminili, limpidi, ricchi di rugiada, allatta in modo meraviglioso, nutre e fa crescere ». La contemplazione del cielo e della fissità e regolarità degli astri acquietavano l’animo, confuso dal perenne mutamento delle cose terrene. Alcuni dei più bei richiami a se stesso di Marco Aurelio vertono su questo: «I pitagorici esortano d’alzare il mattino i nostri occhi al cielo, per ricordarsi di quegli esseri, che compiono sempre le loro azioni secondo le stesse regole e modi, e per ricordarsi dell’ordine, dell’innocenza, della semplicità; niente infatti occulta le stesse». Riguardo invece alla superstizione originata da certi fenomeni celesti, Germanico ne diffidava ma poteva gettare nel panico il popolo. Ne troviamo un esempio proprio in quella campagna di Germania, che riguardò più direttamente Druso, il figlio legittimo di Tiberio e dunque suo fratello.

Durante la rivolta delle truppe, narra Tacito, un’eclissi di luna volse di colpo le cose a favore dei comandanti. I soldati non conoscono l’origine del fenomeno e lo interpretano a loro favore: la luna stessa si cruccia per la loro situazione, e esultavano e si affliggevano a seconda che la luna mandasse qualche lume o tornasse a oscurarsi. Quando fu nascosta del tutto dalle nuvole, prendono l’evento come l’ennesimo segno ma del tutto negativo: gli dei si dispiacevano per quello che avevano osato, si annunciavano enormi pene. Si approfitta di quella paura per riportare l’ordine nell’esercito. Cosa resta di Germanico a duemila anni dalla morte? Quale via avrebbe preso la storia di Roma con lui imperatore? Gli sarebbe succeduto il figlio Caligola, in ogni caso, per rimetterla sui binari inaugurati da Tiberio? «A nessuno sarebbe agevole fare il computo delle statue e delle località in cui si propose di venerarlo», dice Tacito dei giorni dopo la morte. E a noi ora non ne resta che un epigramma, dieci pagine di pianeti di faticosa lettura, alcune statue in cui par di leggere proprio quell’esemplare mitezza d’animo ed equilibrio, e insieme, ironia della sorte o sarcasmo della storia, la singolare somiglianza con Caligola. Intorno a una di queste statue – la sola nota di bronzo – rinvenuta ad Amelia nel 1963, la città umbra ha costruita la mostra del bimillenario.

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